C’era rimasto il mare

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Sono cresciuto a contatto col mare calabrese, ed è da vent’anni che col windsur vado avanti e in dietro planando sulle onde rese luccicanti dal sole. In luglio, agosto e settembre, ma anche in ottobre, novembre e poi a marzo, aprile e maggio e giugno. Basta infilarsi una muta e il gioco è fatto anche a gennaio e febbraio. Onde e vento che mi rendono imparagonabile la vita in qualsiasi altra regione italiana. Mi sento la prova vivente di quanto il nostro mare sia una stupenda, meravigliosa, risorsa che la natura ha regalato alla Calabria. Una risorsa che non abbiamo saputo valorizzare adeguatamente, anzi l’abbiamo inquinato non depurando bene i liquami fognari, usandolo come recapito per rifiuti d’ogni genere. Oggi scopriamo, ormai non sembrano esserci più dubbi, che col sistema delle “navi a perdere” il mare calabrese è stato utilizzato come discarica di rifiuti radioattivi. Quella rinvenuta a largo di Cetraro, in provincia di Cosenza, è una delle navi (oltre venticinque) segnalate dalle associazioni ambientaliste sin dal 1994 con uno specifico dossier presentato dal WWF e da Legambiente. L’apoteosi dei disastri ambientali di una Regione – la Calabria – già di suo disastrata dal punto di vista idrogeologico e ambientale. Ma al peggio no v’è limite e, come se non bastassero il mare inquinato per la cattiva depurazione, l’emergenza rifiuti e i veleni, i metalli pesanti dell’ex Pertusola smaltiti come inerti per costruzioni e con i quali si sono costruite scuole per i nostri figli, adesso abbiamo un’altra triste conferma: lo Ionio e il Tirreno sono stati utilizzati come enormi discariche per rifiuti pericolosi di ogni genere e con le quali si sono arricchiti ‘ndrangheta e affaristi. Forse anche la mano della massoneria deviata. Il mare, quella risorsa che avrebbe dovuto rappresentare il volano dello sviluppo turistico eco sostenibile della Calabria, è stato invece adulterato, vilipeso, persino con scorie tossiche e radioattive. Radioattività che non svanirà per millenni. Speriamo quindi, si faccia presto col recupero dei fusti che s’intravedono, nelle immagini sottomarine, spuntare dalla prua squarciata della nave a largo di Cetraro.
Il giornalista Carlo Lucarelli, nella scorsa puntata di “Blu notte, misteri italiani”, ha ripercorso le tracce di questa storia e quella del Capitano di marina Natale De Grazia morto in condizioni quantomeno misteriose mentre svolgeva una consulenza per le indagini che la procura di Reggio Calabria stava conducendo sulle cosiddette “navi a perdere”. Navi usate – mediante l’affondamento programmato – per smaltire rifiuti pericolosi, tossici e radioattivi, in modo illegale e con un giro d’affari da capogiro. Per affaristi come Giorgio Comerio e l’armatore della motonave “Rosso” Ignazio Messina, anche questa “dispersa” nei nostri mari. Una storia di traffici di rifiuti che risale agli anni ’80 e ’90 e che ha visto le prime denunce delle associazioni ambientaliste già nel 1995. Nel 2004 WWF e Legambiente presentarono alle istituzioni ed ai media uno specifico dossier corredato di mappe di probabili siti di affondamento che restò però lettera quasi morta, nel senso che soltanto le indagini giudiziarie proseguivano ma nulla fu fatto per ricercare le navi che i pentiti dichiaravano di aver affondato. Quel dossier evidenziava la necessità di uno “sforzo congiunto di tutti gli organismi istituzionali con competenze in materia”. Lo stato, il ministero dell’ambiente e, ovviamente, le Regioni coinvolte tra cui la Calabria. Organismi che, stante le numerose indagini delle procure, non si sono minimamente preoccupati di ciò che vi era scritto in quel dossier e di far partire ricerche o iniziative di mobilitazione. Se è vero com’è vero che le indagini aprivano scenari inquietanti sovra nazionali, è pur vero che nessuno avrebbe vietato – dopo la presentazione del rapporto denuncia di Legambiente – l’autonoma ricerca mediante sistemi di telerilevamento e/o di ricerca oceanografica. Neanche una parola. Ora che si ha la prova Cetraro, gli ambientalisti fioriscono. C’era rimasto il mare e invece oggi sappiamo che assieme all’emergenza ambientale della depurazione, a quella dei rifiuti nostrani, esiste quella legata ai traffici internazionali di rifiuti radioattivi.

Territorio fragile, abusivismo e responsabilità politiche

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Morti, sepolti dal fango, dispersi tra i detriti di un territorio fragile: frane, alluvioni, terremoti cui si somma l’incuria umana e di una classe dirigente che, ai vari livelli, non è stata in grado di governare l’utilizzo del territorio. A Giampilieri piove e morti e dispersi si contano nella cronaca. La Sicilia, Messina, paga oggi il prezzo dell’intervento umano – dissennato e distorto – sull’ambiente e sul territorio. Come è accaduto in passato in Calabria, a Sarno e Quindici nel salernitano e, in generale, nel mezzogiorno d’Italia dove alluvioni e frane assieme ai terremoti hanno provocato danni e morti. L’allarmante situazione idrogeologica, dalla Sicilia alla Campania passando per la Calabria e Basilicata, è sotto gli occhi di tutti per la tragedia che ha colpito Messina. Meno di un anno fa sulle cronache era la frana sull’autostrada Salerno Reggio Calabria. Prima ancora un susseguirsi di eventi: l’alluvione e il disastro del Camping Le Giare sul torrente Beltrame a Soverato, le frane di Cavallerizzo e Cerzeto, l’alluvione dell’Esaro di Crotone e chi più ne ha più ne metta. Il Presidente Giorgio Napolitano ha parlato di “Situazione di diffuso dissesto idrogeologico, in gran parte causato dall’abusivismo edilizio, nel messinese e in tante altre parti d’Italia”. E ancora più chiaramente ha detto: “O c’è un piano serio che investe, piuttosto che in opere faraoniche, per garantire la sicurezza in queste zone del Paese, o si potranno avere altre sciagure”.

Quando, a ridosso della disastrosa colata di fango che travolse, nel 1998, i paesi di Sarno e Quindici nel salernitano, fu emanato il decreto leg.vo n°180, poi trasformato in legge, che imponeva di pianificare il rischio ed obbligava tutte le Regioni che ancora non avevano redatto i Piani di Bacino a redigere, pena il commissariamento, almeno i piani stralcio per l’assetto idrogeologico (PAI), fui veramente contento. Perché pensai che, con tale strumento conoscitivo, le Regioni e quindi anche la Calabria avrebbero potuto concorrere al risanamento del dissesto idrogeologico di cui oggi parla Napolitano, ma che ai geologi è noto da tempo. Sfasciume pendulo sul mare lo chiamava Giustino Fortunato. Pensavo che, una volta identificate le aree a rischio idrogeologico, per frana o alluvione, si sarebbe proceduto subito con i necessari interventi di monitoraggio e di mitigazione dei rischi. Invece continuiamo a contare vittime, e si è continuato a costruire in maniera dissennata, sia per la scarsa adeguatezza degli edifici al reale rischio sismico, sia in base ad un’attenta valutazione delle pericolosità geomorfologiche di un territorio fragile. In Calabria più di settemila frane rilevate su montagne e colline, rischio alluvione su centinaia di ettari di pianure e fasce litoranee assieme ai chilometri di costa a rischio erosione la dicono tutta sulla necessità ed urgenza di un cambiamento radicale sulle modalità di gestione del territorio. Non c’è periodo dell’anno che la Calabria non sia costretta da un’emergenza: alluvioni, frane ma anche rifiuti, navi di veleni, abusivismo. Un flusso di emergenze, idrogeologiche e ambientali, il cui intreccio costituisce la questione vera dell’arretratezza e del mancato sviluppo del mezzogiorno e della Calabria. Soltanto per casualità quell’evento meteorico che si è abbattuto a Messina non ha colpito anche la Calabria. Qualche giorno prima si era sfiorata la tragedia con l’esondazione dei fiumi Crocchio in Provincia di Catanzaro e dell’Esaro a Crotone. La politica di questo è responsabile: avrebbe dovuto, ai vari livelli, governare il territorio evitando di consentire la costruzione (e quindi anche le sanatorie di costruzioni abusive) in zone a rischio idrogeologico. E invece si è continuato a costruire case in luoghi dove primo o poi sarebbe tornato il fiume o il terreno sarebbe continuato a scendere. Di interventi di monitoraggio e di riduzione dei rischi attraverso stabilizzazione dei versanti e costruzioni di arginature per la messa in sicurezza neanche a parlarne. Ci vogliono troppi soldi dicono, ma intanto paghiamo miliardi di euro in risanamento dei disastri. Per anni si è gestito il territorio, soprattutto in Calabria e nel mezzogiorno, per fini clientelari. Un dissesto idrogeologico che, a dirla alla Pannella, deve ritenersi causato – o quantomeno compartecipato – dal “disastro ideologico” di una classe politica, quella calabrese, volta a fare il favore a questo e a quello, piuttosto che fare un favore alla collettività. Chi amministrerà, in futuro,  la gestione del territorio nella nostra Regione non potrà più permettersi di non tenere in dovuta considerazione i rischi geologici (sismico, idrogeologico e ambientali) nella programmazione dello sviluppo. In queste condizioni in cui si trovano Sicilia e Calabria come si fa a pensare di voler fare opere come il ponte sullo stretto, faraoniche appunto, quando invece mancano i soldi per la messa in sicurezza e il risanamento del territorio, per non parlare della vulnerabilità sismica degli edifici anche pubblici?

Una montagna di rifiuti, il ciclo integrato e l'incantesimo degli inceneritori

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di Giuseppe Candido

Foto: Giuseppe Candido
Foto: Giuseppe Candido

I titoli dei quotidiani non lasciano dubbi: i rifiuti in Calabria sono un bel guaio. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate, il problema dei rifiuti e della depurazione tornano d’attualità in maniera preponderante. “Quella discarica dimenticata: un vergognoso sipario che deturpa la città” è il titolo di un articolo sul caso di una (ennesima) discarica abusiva a Rossano, ancora abusivamente utilizzata nonostante il sequestro effettuato dalla benemerita in relazione alla presenza di eternit. “Rifiuti pericolosi a cielo aperto” è invece il titolo utilizzato per la notizia del sequestro, a San Gregorio d’Ippona nel vibonese, di una discarica di 300 mila metri cubi in cui venivano abusivamente, manco a dirlo, smaltiti rifiuti pericolosi provenienti dalla demolizione di edifici. Discariche abusive, siti di stoccaggio provvisorio che diventano definitivi e a cui la Regione non riesce a stare dietro con le bonifiche. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 settembre del 1997 dichiarò lo stato di emergenza nella Regione Calabria in ordine alla situazione di crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Stato di emergenza ambientale che con successivi decreti è stato prorogato sino ad oggi ed allargato anche per la questione della depurazione. Un’emergenza che dura da circa dodici anni e che ancora non vede una soluzione definitiva.

Non entro nella polemica, tutta politica e giudiziaria, di come siano stati spesi (male) i soldi della comunità europea: consulenze ad amici, appalti pilotati a ditte in odor di ‘ndrangheta e dipendenti fantasma (41) come scrisse (leggi denunciò) nella sua relazione il prefetto Antonio Ruggiero quando abbandonò la struttura commissariale calabrese. Non vale la pena anche perché, quando a farlo è qualche magistrato, o anche qualche giornalista, lo si trasferisce. Ma vorremmo cercare di capire. Cercare di capire perché siamo così indietro colla raccolta differenziata (solo il 18% della raccolta totale a fronte dell’obbiettivo, ormai non più conseguibile del 65% entro il 2010). Vorremmo capire perché le discariche si stanno riempiendo, tutte, con velocità maggiori e in tempi più brevi di quelli che erano stati previsti da progetto. Vorremmo capire perché, soprattutto, in una terra che dovrebbe puntare tutto sulla valorizzazione delle sue enormi ricchezze paesaggistiche ed ambientali, si continua invece a gettare rifiuti senza differenziarli, in discariche abusive e stoccando materiali pericolosi che mettono a serio rischio la nostra salute e l’ambiente: l’aria, le acque superficiali, le acque sotterranee, il mare e il suolo. Ci piacerebbe capire perché, in Calabria, non si riesca a far partire quel benedetto “ciclo integrato” dei rifiuti e perché non si riesca a passare dalla tassa sui rifiuti (cd Tarsu) ad una tariffa che tenga conto non soltanto dei metri quadri di abitazione ma anche della quantità dei rifiuti prodotti e del virtuosismo che i cittadini hanno nell’effettuare la raccolta differenziata. Soltanto nel 2007, noi calabresi abbiamo prodotto 990.672 tonnellate di rifiuti, una montagna di monnezza, di cui soltanto il 18 % (178.321 tonnellate) di raccolta differenziata. Quattrocentosettantotto i chilogrammi di rifiuti prodotti da ciascun calabrese in un anno e di cui soltanto ottantasei raccolti differenziando il materiale: una vergogna. Siamo ancora troppo distanti da quel 65% previsto dalla legge del 2006 che prevede il raggiungimento dell’obbiettivo entro il 2010 o, al massimo, entro il 2012.

Già questo consente di fare una prima valutazione. Un serio ciclo integrato dei rifiuti, che è l’alternativa al continuo aprire discariche e inceneritori, dovrebbe incentivare la riduzione della produzione di rifiuti. Come? Incentivando, per esempio, consumi “alla spina” di bevande e detersivi, e riutilizzando più volte i contenitori. Risparmieremmo pure. Leggere i giornali e le riviste on line consentirebbe di risparmiare circa 70 Kg/anno pro capite di carta. Bere acqua del rubinetto o riutilizzando i contenitori di vetro per acquistarla sfusa, assieme all’uso di bicchieri di vetro, consentirebbero un risparmio di oltre 125 Kg/anno pro capite di plastica.

Nell’ultimo piano regionale approvato per la gestione dei rifiuti in Calabria sono state evidenziate le principali criticità del sistema che riguardano sia aspetti strutturali sia aspetti funzionali. Accanto al deficit di impianti dovuto al non avvenuto completamento di alcune strutture, si lamenta l’insufficienza proprio della raccolta differenziata e il totale mancato avvio della raccolta differenziata dell’umido organico. Il tutto in un contesto, come si legge nello stesso piano regionale, reso scarsamente efficiente per l’eccessivo numero di “sotto ambiti” e di società che gestiscono la raccolta differenziata. Gli obiettivi del piano previsti per la raccolta differenziata non sono stati conseguiti e, anzi, si è ancora ben lontani dal loro raggiungimento. Tali criticità di sistema sono particolarmente rilevanti poiché causano un effetto a catena sulle altre fasi del trattamento dei rifiuti. Infatti, in assenza di un’adeguata raccolta differenziata aumenta il carico di rifiuti sulle discariche dove viene immessa una quantità di rifiuti tal quale superiore a quella prevista e superiore ai limiti fissati dalla normativa vigente. Situazione aggravata, se ciò non bastasse, dalla mancata utilizzazione degli impianti per la valorizzazione della raccolta differenziata e dalla scarsa funzionalità del sistema di raccolta a causa dell’attuale suddivisione del territorio regionale in 14 sotto ambiti in cui l’affidamento della raccolta differenziata ad una società mista all’interno di ciascun sotto ambito è inadeguata.

Ma se questo è il panorama regionale la domanda è: come uscirne? Come avviare la fine di un’emergenza che dura da dodici anni? Costruendo altre discariche? Nuovi inceneritori? L’alternativa c’è, ma necessita di un salto culturale: si chiama “ciclo integrato dei rifiuti” e prevede, come già accennato, il passaggio da una tassa ad una tariffa sui rifiuti: chi più produce rifiuti più paga.

Oltre alla riduzione alla fonte dei rifiuti da incentivare con la diffusione di comportamenti “ecologici” dei consumatori, il ciclo integrato prevede la raccolta differenziata porta a porta, il compostaggio e il trattamento meccanico-biologico a freddo.

A differenza del sistema a cassonetti stradali, quella porta a porta ha dimostrato di consentire di arrivare, in tempi brevi, a percentuali tra il 65 e l’85% di differenziata. Non è un’utopia: a San Francisco (USA) dove sono 800.000 gli abitanti, il 67% dei rifiuti viene raccolto in maniera differenziata. A Novara (100.000 abitanti) si arriva al 70% di differenziata. Stesse percentuali in alcuni quartieri di Reggio Emilia dove il sistema porta a porta è integrato con quello delle isole ecologiche. E ancora: a Roma, nel quartiere Colli Aniene, si arriva al 63%; a Treviso (oltre 220.000 abitanti) addirittura il 75% dei rifiuti sono differenziati. Ma la differenziata non basta: è necessario innescare a valle una filiera del riciclaggio per produrre nuovi oggetti e dalla quale è senz’altro possibile creare posti di lavori “ecologici” che potrebbero diventare un volano positivo contro la crisi in atto. L’organico, anch’esso raccolto porta a porta, andrà agli impianti di compostaggio per produrre fertilizzante. Ciò può essere fatto anche a livello domestico o condominiale per produrre concime per le proprie aree verdi.

Per quello che comunque non è riciclabile è ancora troppo presto per la discarica o per l’inceneritore. Lo si può trattare senza incenerire ed evitando di inviare in discarica le ceneri tossiche o il materiale tal quale ancora putrescibile e quindi pericoloso per i percolati che produce. Mediante il trattamento cd meccanico-biologico a freddo che in Germania risulta in grande evoluzione: 64 gli impianti di TMB contro i 73 inceneritori. I rifiuti che rimangono indifferenziati e non riciclati vengono dapprima selezionati da appositi macchinari cercando di recuperare ancora vetro, metalli ed altro materiale riciclabile. Dopodiché il rimanente viene inviato in appositi “bio-reattori” chiusi e con “bio-filtri” che essiccano, a 40-60°C, ciò che rimane. Il tutto senza bruciare e producendo biogas utile per far funzionare l’impianto stesso. Il materiale così essiccato è ridotto del 40 – 50% rispetto alla massa in ingresso, non è più putrescibile e non è nemmeno una cenere tossica come quella che invece esce dagli inceneritori. Essendo reso inerte, il materiale prodotto dal trattamento meccanico biologico lo si può riciclare in edilizia come sottofondo stradale. Gli inceneritori non eliminano le discariche ma, anzi, producono ceneri tossiche in quantità pari a circa il 25% di ciò che viene bruciato, e che richiede particolari accorgimenti per essere smaltite. Come scrisse nel 1993 il Wall Street Journal: quello degli inceneritori è (e resta ancora) il metodo più costoso di smaltimento dei rifiuti. Un impianto di trattamento meccanico biologico costa invece il 50-70% in meno di un inceneritore e il materiale che rimane è riutilizzabile come inerte o per produrre combustibile da rifiuti. Nell’ambito di un ciclo integrato dei rifiuti, assieme alla raccolta differenziata porta a porta e al compostaggio dell’umido, il trattamento meccanico biologico a freddo viene accettato più facilmente dalle popolazioni perché ha costi ambientali decisamente inferiori consentendo di abbattere gran parte degli inquinanti: 5 kg di polveri prodotte per tonnellata di rifiuti trattate contro i 38 kg degli inceneritori; 78 Kg di ossidi di azoto (nitrati e nitriti) contro i 577 kg per tonnellata di rifiuti trattati con inceneritore; scarti solidi pesanti a tossicità media contro quelli a tossicità alta sempre degli inceneritori; pochi fumi a bassa tossicità contro elevati quantitativi di fumi ad elevata tossicità degli inceneritori; 40 nanogrammi di diossine per tonnellata trattata che, con particolari accorgimenti, possono scendere addirittura a 0,1 nano grammi, contro i 400 nanogrammi rilasciati degli inceneritori per ogni tonnellata di rifiuti trattati.

Il ciclo integrato e il trattamento meccanico biologico a freddo per uscire dall’emergenza senza cadere nell’incantesimo degli inceneritori che volge al termine in tutta l’Europa.

E’ questa la politica da perseguire, per risolvere una volta per tutti il problema dei rifiuti. Per evitare che, colmate le discariche esistenti deflagri la bomba “monnezza” e la si contenga con i “salubri” inceneritori.

Una montagna di rifiuti, il ciclo integrato e l’incantesimo degli inceneritori

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Pubblicato su “Il domani della Calabria” . 01 Luglio 2009. I titoli dei quotidiani non lasciano dubbi: i rifiuti in Calabria sono un bel guaio. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate, il problema dei rifiuti e della depurazione tornano d’attualità in maniera preponderante. “Quella discarica dimenticata: un vergognoso sipario che deturpa la città” è il titolo di un articolo sul caso di una (ennesima) discarica abusiva a Rossano, ancora abusivamente utilizzata nonostante il sequestro effettuato dalla benemerita in relazione alla presenza di eternit. “Rifiuti pericolosi a cielo aperto” è invece il titolo utilizzato per la notizia del sequestro, a San Gregorio d’Ippona nel vibonese, di una discarica di 300 mila metri cubi in cui venivano abusivamente, manco a dirlo, smaltiti rifiuti pericolosi provenienti dalla demolizione di edifici. Discariche abusive, siti di stoccaggio provvisorio che diventano definitivi e a cui la Regione non riesce a stare dietro con le bonifiche. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 settembre del 1997 dichiarò lo stato di emergenza nella Regione Calabria in ordine alla situazione di crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Stato di emergenza ambientale che con successivi decreti è stato prorogato sino ad oggi ed allargato anche per la questione della depurazione. Un’emergenza che dura da circa dodici anni e che ancora non vede una soluzione definitiva.

Non entro nella polemica, tutta politica e giudiziaria, di come siano stati spesi (male) i soldi della comunità europea: consulenze ad amici, appalti pilotati a ditte in odor di ‘ndrangheta e dipendenti fantasma (41) come scrisse (leggi denunciò) nella sua relazione il prefetto Antonio Ruggiero quando abbandonò la struttura commissariale calabrese. Non vale la pena anche perché, quando a farlo è qualche magistrato, o anche qualche giornalista, lo si trasferisce. Ma vorremmo cercare di capire. Cercare di capire perché siamo così indietro colla raccolta differenziata (solo il 18% della raccolta totale a fronte dell’obbiettivo, ormai non più conseguibile del 65% entro il 2010). Vorremmo capire perché le discariche si stanno riempiendo, tutte, con velocità maggiori e in tempi più brevi di quelli che erano stati previsti da progetto. Vorremmo capire perché, soprattutto, in una terra che dovrebbe puntare tutto sulla valorizzazione delle sue enormi ricchezze paesaggistiche ed ambientali, si continua invece a gettare rifiuti senza differenziarli, in discariche abusive e stoccando materiali pericolosi che mettono a serio rischio la nostra salute e l’ambiente: l’aria, le acque superficiali, le acque sotterranee, il mare e il suolo. Ci piacerebbe capire perché, in Calabria, non si riesca a far partire quel benedetto “ciclo integrato” dei rifiuti e perché non si riesca a passare dalla tassa sui rifiuti (cd Tarsu) ad una tariffa che tenga conto non soltanto dei metri quadri di abitazione ma anche della quantità dei rifiuti prodotti e del virtuosismo che i cittadini hanno nell’effettuare la raccolta differenziata. Soltanto nel 2007, noi calabresi abbiamo prodotto 990.672 tonnellate di rifiuti, una montagna di monnezza, di cui soltanto il 18 % (178.321 tonnellate) di raccolta differenziata. Quattrocentosettantotto i chilogrammi di rifiuti prodotti da ciascun calabrese in un anno e di cui soltanto ottantasei raccolti differenziando il materiale: una vergogna. Siamo ancora troppo distanti da quel 65% previsto dalla legge del 2006 che prevede il raggiungimento dell’obbiettivo entro il 2010 o, al massimo, entro il 2012.

Già questo consente di fare una prima valutazione. Un serio ciclo integrato dei rifiuti, che è l’alternativa al continuo aprire discariche e inceneritori, dovrebbe incentivare la riduzione della produzione di rifiuti. Come? Incentivando, per esempio, consumi “alla spina” di bevande e detersivi, e riutilizzando più volte i contenitori. Risparmieremmo pure. Leggere i giornali e le riviste on line consentirebbe di risparmiare circa 70 Kg/anno pro capite di carta. Bere acqua del rubinetto o riutilizzando i contenitori di vetro per acquistarla sfusa, assieme all’uso di bicchieri di vetro, consentirebbero un risparmio di oltre 125 Kg/anno pro capite di plastica.

Nell’ultimo piano regionale approvato per la gestione dei rifiuti in Calabria sono state evidenziate le principali criticità del sistema che riguardano sia aspetti strutturali sia aspetti funzionali. Accanto al deficit di impianti dovuto al non avvenuto completamento di alcune strutture, si lamenta l’insufficienza proprio della raccolta differenziata e il totale mancato avvio della raccolta differenziata dell’umido organico. Il tutto in un contesto, come si legge nello stesso piano regionale, reso scarsamente efficiente per l’eccessivo numero di “sotto ambiti” e di società che gestiscono la raccolta differenziata. Gli obiettivi del piano previsti per la raccolta differenziata non sono stati conseguiti e, anzi, si è ancora ben lontani dal loro raggiungimento. Tali criticità di sistema sono particolarmente rilevanti poiché causano un effetto a catena sulle altre fasi del trattamento dei rifiuti. Infatti, in assenza di un’adeguata raccolta differenziata aumenta il carico di rifiuti sulle discariche dove viene immessa una quantità di rifiuti tal quale superiore a quella prevista e superiore ai limiti fissati dalla normativa vigente. Situazione aggravata, se ciò non bastasse, dalla mancata utilizzazione degli impianti per la valorizzazione della raccolta differenziata e dalla scarsa funzionalità del sistema di raccolta a causa dell’attuale suddivisione del territorio regionale in 14 sotto ambiti in cui l’affidamento della raccolta differenziata ad una società mista all’interno di ciascun sotto ambito è inadeguata.

Ma se questo è il panorama regionale la domanda è: come uscirne? Come avviare la fine di un’emergenza che dura da dodici anni? Costruendo altre discariche? Nuovi inceneritori? L’alternativa c’è, ma necessita di un salto culturale: si chiama “ciclo integrato dei rifiuti” e prevede, come già accennato, il passaggio da una tassa ad una tariffa sui rifiuti: chi più produce rifiuti più paga.

Oltre alla riduzione alla fonte dei rifiuti da incentivare con la diffusione di comportamenti “ecologici” dei consumatori, il ciclo integrato prevede la raccolta differenziata porta a porta, il compostaggio e il trattamento meccanico-biologico a freddo.

A differenza del sistema a cassonetti stradali, quella porta a porta ha dimostrato di consentire di arrivare, in tempi brevi, a percentuali tra il 65 e l’85% di differenziata. Non è un’utopia: a San Francisco (USA) dove sono 800.000 gli abitanti, il 67% dei rifiuti viene raccolto in maniera differenziata. A Novara (100.000 abitanti) si arriva al 70% di differenziata. Stesse percentuali in alcuni quartieri di Reggio Emilia dove il sistema porta a porta è integrato con quello delle isole ecologiche. E ancora: a Roma, nel quartiere Colli Aniene, si arriva al 63%; a Treviso (oltre 220.000 abitanti) addirittura il 75% dei rifiuti sono differenziati. Ma la differenziata non basta: è necessario innescare a valle una filiera del riciclaggio per produrre nuovi oggetti e dalla quale è senz’altro possibile creare posti di lavori “ecologici” che potrebbero diventare un volano positivo contro la crisi in atto. L’organico, anch’esso raccolto porta a porta, andrà agli impianti di compostaggio per produrre fertilizzante. Ciò può essere fatto anche a livello domestico o condominiale per produrre concime per le proprie aree verdi.

Per quello che comunque non è riciclabile è ancora troppo presto per la discarica o per l’inceneritore. Lo si può trattare senza incenerire ed evitando di inviare in discarica le ceneri tossiche o il materiale tal quale ancora putrescibile e quindi pericoloso per i percolati che produce. Mediante il trattamento cd meccanico-biologico a freddo che in Germania risulta in grande evoluzione: 64 gli impianti di TMB contro i 73 inceneritori. I rifiuti che rimangono indifferenziati e non riciclati vengono dapprima selezionati da appositi macchinari cercando di recuperare ancora vetro, metalli ed altro materiale riciclabile. Dopodiché il rimanente viene inviato in appositi “bio-reattori” chiusi e con “bio-filtri” che essiccano, a 40-60°C, ciò che rimane. Il tutto senza bruciare e producendo biogas utile per far funzionare l’impianto stesso. Il materiale così essiccato è ridotto del 40 – 50% rispetto alla massa in ingresso, non è più putrescibile e non è nemmeno una cenere tossica  come quella che invece esce dagli inceneritori. Essendo reso inerte, il materiale prodotto dal trattamento meccanico biologico lo si può riciclare in edilizia come sottofondo stradale. Gli inceneritori non eliminano le discariche ma, anzi, producono ceneri tossiche in quantità pari a circa il 25% di ciò che viene bruciato, e che richiede particolari accorgimenti per essere smaltite. Come scrisse nel 1993 il Wall Street Journal: quello degli inceneritori è (e resta ancora) il metodo più costoso di smaltimento dei rifiuti. Un impianto di trattamento meccanico biologico costa invece il 50-70% in meno di un inceneritore e il materiale che rimane è riutilizzabile come inerte o per produrre combustibile da rifiuti. Nell’ambito di un ciclo integrato dei rifiuti, assieme alla raccolta differenziata porta a porta e al compostaggio dell’umido, il trattamento meccanico biologico a freddo viene accettato più facilmente dalle popolazioni perché ha costi ambientali decisamente inferiori consentendo di abbattere gran parte degli inquinanti: 5 kg di polveri prodotte per tonnellata di rifiuti trattate contro i 38 kg degli inceneritori;  78 Kg di ossidi di azoto (nitrati e nitriti) contro i 577 kg per tonnellata di rifiuti trattati con inceneritore; scarti solidi pesanti a tossicità media contro quelli a tossicità alta sempre degli inceneritori; pochi fumi a bassa tossicità contro elevati quantitativi di fumi ad elevata tossicità degli inceneritori; 40 nanogrammi di diossine per tonnellata trattata che, con particolari accorgimenti, possono scendere addirittura a 0,1 nano grammi, contro i 400 nanogrammi rilasciati degli inceneritori per ogni tonnellata di rifiuti trattati.

Il ciclo integrato e il trattamento meccanico biologico a freddo per uscire dall’emergenza senza cadere nell’incantesimo degli inceneritori che volge al termine in tutta l’Europa.

E’ questa la politica da perseguire, per risolvere una volta per tutti il problema dei rifiuti. Per evitare che, colmate le discariche esistenti deflagri la bomba “monnezza” e la si contenga con i “salubri” inceneritori.

Calabria: frane a gogo' e ci scappano pure i morti

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di Giuseppe Candido (*)

Ma non è Dio ad averli voluti. Il dissesto ideologico la vera causa del disastro idrogeologico.

Calabria imbottigliata”, “Unʼintera provincia in ginocchio”, “Morte e interrogativi”. Sono questi i titoli che hanno campeggiato sui quotidiani calabresi subito dopo lʼevento franoso che la sera del 26 gennaio scorso ha travolto e ucciso due persone sullʼautostrada Salerno Reggio Calabria. Circa 10.000 metri cubi di materiale incoerente hanno travolto e divelto come un grissino un muro di sostegno in cemento armato. Fare però qualche riflessione a mente fredda forse potrà risultare utile.

Anche se oggi mi dedico maggiormente allʼinsegnamento delle scienze nella scuola media, faccio il geologo in Calabria dal 1994 e dire che i geologi lo avevamo sempre detto mi sembra riduttivo. Non da geologo, ma da calabrese soprattutto. A sentire le parole del Presidente della Regione Agazio Loiero, recatosi sul posto, sembrava che lʼevento non fosse prevedibile e che lʼeccezionalità delle precipitazioni fosse la vera causa della tragedia. Ma non è così, la vera causa è lʼincapacità dellʼattuale classe politica e dirigente calabrese nel governare il territorio e nel passare dalla sola gestione dellʼemergenza ad una sana opera di prevenzione e mitigazione dei rischi.

Troppo facile lodare il “modo dignitoso” con cui la famiglia di Danilo Orlando ha affrontato il dramma: “Lo ha voluto Dio”. Ma la politica deve assumersi le sue responsabilità. La Calabria e i calabresi pagano oggi il prezzo di un pluriennale uso – dissennato e distorto – del territorio da parte di Sindaci, e presidenti di Province e Regione. Premesso che esiste un Piano per lʼAssetto Idrogeologico (PAI) che, dal 2001, ha bene identificato e riportato su apposite mappe le aree in frana e le relative aree a rischio e che lʼautostrada risulta più volte intersecata da dette aree in frana come facilmente verificabile da chiunque collegandosi al sito dellʼautorità di Bacino della Calabria, ci chiediamo perché non si siano eseguiti gli opportuni interventi di monitoraggio e controllo. Ci chiediamo pure come mai non si facciano interventi di consolidamento per ridurre i rischi e addirittura si arrivi ad aggravarli convogliando, come ammesso candidamente dal Sindaco di Altilia, le acque bianche proprio in corrispondenza dellʼarea in frana che, come si sa, non tanto vanno dʼaccordo con lʼacqua? Ma il male che ha ucciso in questʼoccasione due persone è un male diffuso su tutto il territorio. Più di settemila le frane rilevate dallʼautorità di bacino e segnalate a tutti gli enti interessati con apposite cartografie, rischio di alluvione esteso su molte centinaia di ettari di pianure assieme alle aree a rischio di erosione della costa forniscono lʼidea delle dimensioni e della gravità del dissesto idrogeologico della Calabria. Lo scrittore Giustino Fortunato definì la Calabria “sfasciume pendulo sul mare”. Cerzeto, Filadelfia, Favazzina, Pannaconi sono soltanto alcuni nomi dei centri abitati coinvolti con fenomeni franosi che hanno messo a rischio opere e vite umane.

Una Carta del Piano per lassetto idorgeologico della Calabria
Una Carta del Piano per l'assetto idorgeologico della Calabria

La frana sullʼA3 è quindi da considerarsi lʼepilogo di un disastro annunciato che vede nellʼincapacità della classe politica e dirigente il principale responsabile. Negli anni poco o nulla è stato fatto per una più attenta programmazione strutturale del territorio e per interventi di monitoraggio e controllo dei movimenti franosi. Si pensi a tutti i dissesti sulle provinciali e sulle statali calabresi sistematicamente invase da fango e che si verificano ogni qual volta cʼè un evento meteorico eccezionale, ma non più così tanto straordinario. E mentre per risanare il dissesto idrogeologico si spendono 300 milioni di euro lʼanno per gli stipendi dei diecimila forestali calabresi, le conseguenze del dissesto idrogeologico calabrese sono sotto gli occhi di tutti. Anche sotto quelli, piangenti, delle madri, dei padri, delle famiglie, degli amici delle vittime. Emergenza maltempo? Non cʼè periodo dellʼanno che la Calabria non sia costretta a fronteggiare una emergenza: emergenza frane, emergenza alluvioni, emergenza incendi boschivi e, paradossalmente, emergenza siccità. Per non parlare poi di emergenza rifiuti e di emergenza inquinamento che si prorogano di legislatura in legislatura, di commissariamento in commissariamento.

Un flusso di emergenze il cui intreccio costituisce la questione ambientale calabrese. Una questione ambientale che oltre ai problemi in termini di sicurezza coinvolge ogni attività economica, sociale. Una questione ambientale la cui risoluzione costituirebbe, oltretutto, un volano di sviluppo economico al quale la Calabria e i calabresi devono poter ambire. La politica calabrese per anni ha gestito il territorio e la edificabilità dello stesso con soli fini clientelari senza preoccuparsi dei problemi, neanche quando gli li hanno messi sotto gli occhi con le cartografie del PAI nel caso del rischio idrogeologico. Un dissesto idrogeologico generato, o quanto meno compartecipato, dal disastro ideologico di una classe politica calabrese volta piuttosto a preoccuparsi di fare il favore a questo o a quello che non a fare un favore alla collettività, magari mitigando i rischi con opportune opere di consolidamento o, quantomeno, predisponendo una adeguato sistema di monitoraggio delle frane non consolidate. Fiumi di denaro dei fondi europei non sono serviti a risolvere le emergenze ambientali come i milioni di euro spesi per i forestali non ha risolto né diminuito il rischio idrogeologico. La politica, invece di occuparsi di come spartirsi e spendere i soldi in clientele, con i venti di federalismo fiscale che vanno soffiando, farebbe meglio ad occuparsi di governare il territorio in maniera sostenibile mitigando i rischi idrogeologici conseguenti a quegli eventi che tanto straordinari più non sono.

(*) geologo dal 1994