Chiesa: “istituzione anacronistica". Lo scisma è qui?

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recensione di Alessandro Litta Modignani

Il viaggio di Chiaberge fra i cattolici adulti

Lo Scisma. Il libro di Riccardo Chiaberge
Lo Scisma. Il libro di Riccardo Chiaberge

Nel suo lungo viaggio fra i cattolici adulti (“Lo scisma – Cattolici senza Papa”, 300 pagine, Longanesi) Riccardo Chiaberge si reca in visita a una cospicua lista di quei credenti, quasi tutti cattolici praticanti, che mandano puntualmente il cibo di traverso alle gerarchie vaticane. Sono personaggi noti e meno noti, laici ed ecclesiastici, storie di vita e di fede che non rientrano nello stereotipo che vorrebbe il “buon cristiano” ligio ai dettami della Chiesa.

La carrellata parte dal frate eremita che si oppone “alla concezione anticristiana della vita e della famiglia diffusa dal berlusconismo”, non risparmia Radio Maria (“Per me è un veleno…. Un fanatismo lontano anni luce dal messaggio evangelico”) e osserva acutamente: “Celibe dev’essere il monaco, non il prete”. Poi è la volta della cosiddetta “secessione viennese”, con il suo cupo corollario di scandali a sfondo pedofilo. Sfilano i parroci di base, le suore comboniane, i gesuiti non allineati, i “missionari in Padania” – e naturalmente quelli in Africa, che distribuiscono preservativi per limitare la diffusione dell’Aids. Un apposito capitolo è dedicato ai “Preti in amore”, i vari Bollettin, Milingo, don Sante e molti altri.

Particolarmente ricco il fronte dei cattolici impegnati nella ricerca scientifica e nelle nuove frontiere della medicina, da Giorgio Lambertenghi Deliliers a Elisa Nicolosi, a Elena Cattaneo e naturalmente a quel don Luigi Verzé che ha ammesso di avere “staccato” su richiesta, dalla macchina che lo teneva in vita, un suo amico paziente terminale. Lambertenghi alza gli occhi al cielo commentando l’accanimento di chi vuole nutrire forzatamente un corpo dopo 17 anni di vita vegetativa: “Lo so, cosa vuole, i bioeticisti…. Oggi sono molto di moda. Molti di loro non conoscono gli ospedali, non sono mai stati in una corsia…. Persino Papa Giovanni Paolo II ha detto: lasciatemi tornare alla casa del Padre”.

Commovente e significativo il panorama degli “ex voto” affissi nelle bacheche del Regina Elena, a Milano, da quanti sono riusciti ad avere un figlio grazie alla fecondazione assistita, nonostante i veti della Chiesa: “Ci avete dato amore e speranza…. Avete compiuto il miracolo…. Il nostro sogno si è realizzato… Bisogna credere fino in fondo, sperare e pregare che il miracolo si realizzi…. C’è un angelo in cielo che non aspetta altro che di diventare un bambino….” e così via.

Il libro di Chiaberge conia un neologismo: “dolorismo”, termine con il quale il gesuita Padre Carlo Casalone descrive una visione arcaica e un po’ sadica del cristianesimo: “Non è stato il dolore a salvarci, ma l’amore”. Purtroppo di “doloristi” se ne sono radunati un po’ più del necessario al capezzale di Piergiorgio Welby, commenta l’autore.

La donna ? Nel ’95 la Congregazione per la dottrina della fede, presieduta da Joseph Ratzinger, dice che la sua esclusione “è fondata sulla parola di Dio, scritta e costantemente conservata e applicata nella tradizione della Chiesa”; che “è stata proposta infallibilmente” dal pontefice; e che dunque “si deve tenere sempre e ovunque da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede”. Chiaro, no?

Chiaberge parla di un “crescente distacco dei vertici romani dal popolo di Dio” e di una Chiesa “istituzione anacronistica, l’ultima monarchia assoluta in Europa dopo il crollo dell’Ancien Règime, una piramide tutta al maschile in un mondo dove le donne hanno ormai raggiunto quasi dappertutto ruoli di comando”. Per contro, il mondo cattolico seguita a esprimere quella “creatività cristiana che nessuna gerarchia, per quanto ottusa, potrà soffocare”, per usare le parole di Jean Delumeau. Quest’ultimo aggiunge: “Oggi i progressi dell’embriologia ci dicono che la fecondazione dura più di venti ore, e che solo un ovulo fecondato su tre arriva a impiantarsi nell’utero. Soltanto a partire dal 14° giorno è certo che l’ovulo non darà vita a due gemelli. E allora perchè non decidere che la persona umana comincia solo quando appaiono i primi rudimenti del cervello?”. Già, perché?

Monsignor Sergio Pagano si spinge a dire: “Le cellule staminali, la genetica, qualche volta ho l’impressione che siano condannate con gli stessi preconcetti che si avevano verso le teorie di Copernico e Galileo”, ma il genetista Bruno Della Piccola, presidente di Scienza & Vita, subito lo bacchetta: “Fermare la ricerca sulle staminali embrionali non è affatto oscurantismo”. A volte, almeno in Italia, gli scienziati arrivano a essere più clericali del clero, chiosa Chiaberge.

L'oro nero sulla nostra testa

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di Giuseppe Candido

Fra pochi giorni i grandi della terra si riuniranno a Copenaghen per discutere dei cambiamenti climatici in corso, di ambiente e di politiche energetiche mondiali. Produrre energia senza inquinare è diventata un’esigenza mondiale non più rinviabile.

Ciò nonostante lo scorso 16 novembre le agenzie hanno battuto la notizia secondo cui la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico che sarebbe dovuta servire a stabilire nuovi vincoli per le emissioni di gas inquinanti, superando il precedente Protocollo di Kyoto, i cui obiettivi di riduzione delle emissioni arrivano al 2012, non prevederà invece nulla di tutto ciò a causa del “Patto di ferro fra Usa e Cina” in base al quale nessun accordo sui tagli alle emissioni di CO2 potrà essere raggiunto al prossimo vertice di Copenaghen.

Insomma, abbiamo così tanto bisogno di energia che non possiamo rinunciare a bruciare petrolio e carbone. Ma forse le cose sono destinate a cambiare in breve tempo. Ci si è accorti infatti che, sopra la nostra testa, vi è un vero e proprio “giacimento energetico” costituito dai venti, veri e propri fiumi d’aria, ad alta quota. Il potenziale energetico di queste correnti è dieci volte superiore rispetto a quello dei normali venti a bassa quota. L’idea di utilizzare speciali turbine eoliche montate su “aquiloni” per produrre energia elettrica sfruttando i venti presenti in alta quota non è nuova. Già in passato, alcune università e centri di ricerca hanno proposto alcune ipotesi di soluzione tecnologica. Ma le cose stanno evolvendo velocemente. A Berzano S. Pietro, fra le colline a est di Torino, a settembre è stato testato il primo prototipo per lo sviluppo di una centrale eolica d’alta quota. Si chiama Kite Wind Generator, e invece delle lente e ingombranti torri a turbina, basa la produzione di energia su enormi aquiloni collegati a una turbina ad asse verticale. Col termine Kite (aquilone) Gen si indicano un’intero gruppo di sistemi, di nuova concezione, volti ad estrarre energia dal vento a costi competitivi con il carbone. La Kite Gen Research, azienda titolata di specifici brevetti, punta a stravolgere il campo della produzione di energia eolica grazie a un sistema tutto italiano che trae ispirazione direttamente dalle spettacolari evoluzioni dei Kite surfer .

Una torre eolica tradizionale, come quelle che vediamo installare anche in Calabria, è un rotore orizzontale in grado di sfruttare il vento a poche decine di metri dal suolo richiedendo l’installazione su crinali o parti elevate del territorio con forte ricaduta paesaggistica. Il Kite Gen è invece un’aquilone o una “giostra” di aquiloni pilotati da un sistema automatico, che sfrutta i venti presenti a quote tra i 500 e i 10.000 metri e che può essere installato, con buona resa in termini di ore effettive a potenza nominale, anche in pianura.

Il vento di alta quota ha, infatti, la caratteristica di essere quasi sempre presente ed è molto forte (15 m/s ovvero 2 kW/m2), mentre quello a livello del terreno è forte in pochi siti e per circa 1700-1800 ore all’anno. Il vento che si pensa di utilizzare è quello intorno agli 800 metri di altezza con velocità medie di 7 m/s e potenza specifica di 200 W/m2 .

Sembrerebbe quasi fantascienza se non fosse che dallo scorso mese di settembre è stata avviata, a Berzano S. Pietro, in provincia di Asti, la prima produzione di energia mediante una versione prototipo in configurazione singola a “sten”, cioè con uno stelo alto 25 metri. Lo stelo comanda un grande aquilone a forma allungata, analogo a un Kite surf, ma di alcune decine di metri quadrati.

La trazione, durante la salita, fa girare alternatori anche da tre megawatt. Raggiunti gli 800 metri, è sufficiente tirare una sola fune (che nel Kitesurf viene detta fune di depower) per mettere l’aquilone in posizione d’ala a “bandiera”, riavvolgendo velocemente le funi con minimo dispendio energetico; attorno ai 400 metri, l’aquilone è rimesso in posizione di portanza e il ciclo si ripete: la risalita avviene con produzione di energia elettrica. Uno yo-yo che, per oltre 5000 ore annue di saliscendi, produce molto di più di una normale torre. Nel caso di un sito permanente è necessaria l’istituzione di una zona di non sorvolo per i piccoli aereomobili poiché i corridoi delle linee aeree sono situati ad altezze decisamente superiori, intorno agli 8-10mila metri. Senza contare che sulle centrali nucleari dismesse presenti in Italia esiste già un divieto di sorvolo. E ciò è da considerare pure in relazione al fatto che un’impianto di Kite Gen multiplo a “giostra”, un carosello di 1500 m di diametro, in grado di produrre fino a potenze dell’ordine di un GigaWatt, paragonabili a quelle di una centrale, ad un sesto del costo attuale del kilowattore nucleare. Il tutto senza nessuna emissione di anidride carbonica e senza produrre le famose scorie nucleari che poi non si sa dove buttare.

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Migrazione, una sfida per la democrazia

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di Mario Patrono (*)

Vorrei sviluppare il mio intervento su tre livelli in modo da passare dal primo, più generale, fino al terzo, particolarmente dedicato alla proposta che l’UE pervenga, da un lato, alla redazione di uno Statuto europeo dei diritti del non cittadino, e, dall’altro, a stabilire essa stessa i criteri per l’acquisto della cittadinanza europea da parte dei migranti.

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Fino a tempi non troppo remoti, la maggior parte dei movimenti transnazionali avveniva dai Paesi più sviluppati a quelli meno sviluppati. Nel corso dell’ultima parte del secolo scorso, invece, è iniziato un movimento contrario. Il primo movimento ha corrisposto al processo di colonizzazione, il secondo si riferisce invece a un contro-movimento che vede gli ex colonizzati muoversi verso i centri dai quali le passate colonizzazioni erano partite. Mi riferisco al fenomeno epocale delle migrazioni dai Paesi poveri verso le società ricche e democratiche.

Per la verità, si è anche avuta, nel ‘700, nel ‘800 e nei primi decenni del ‘900, una migrazione di massa di gente povera dai Paesi europei. Però, con una differenza. La migrazione dai Paesi europei si dirigeva verso territori sterminati e a bassissima densità abitativa: l’America del Nord, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Argentina e altri Paesi del Sud America. La migrazione dei giorni nostri ha invece determinato una inondazione sociale di enormi proporzioni su un’area geografica ristretta e densamente popolata. Questa inondazione, un vero cataclisma, rischia di determinare uno scontro durissimo tra popolazioni e tra interessi, uno scontro che mette sul banco di prova i valori etici che sono un patrimonio irrinunciabile della civiltà europea: il rispetto per la dignità di ogni essere umano, l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà verso i poveri e verso i bisognosi: non importa se uomini o donne, se bianchi o neri, se cristiani ebrei o islamici, non importa se nazionali o stranieri.

Non intendo proporre ricette né definire i principi che dovrebbero indicarci quando è giusto regolare più o meno severamente il flusso alle frontiere. Quello che mi sentirei di escludere, al riguardo, è che la soluzione di questo difficile problema possa consistere nella proposta- avanzata da alcuni esponenti del fondamentalismo liberale ( parlo di R. E. Goodwin, parlo di J.H. Carens) – secondo la quale se vogliamo davvero che gli abitanti dei Paesi più poveri abbiano una qualche possibilità di vita anche remotamente simile a quella degli abitanti dei Paesi più ricchi, allora la via più diretta consisterebbe nel concedere ai primi di trasferirsi liberamente nei Paesi dei secondi. Questa mi pare francamente una sciocchezza! La soluzione giusta a me pare un’altra e cioè che l’immigrazione andrebbe eliminata come problema grave per la semplice ragione che le cause dell’emigrazione dovrebbero scomparire. Dovrebbe cioè scomparire in una società globale “ragionevolmente giusta” l’ineguaglianza eccessiva della ricchezza nella sua distribuzione territoriale. Questa soluzione va perseguita “di concerto” dai popoli europei senza risparmio di energia e di denaro. Si tratta di un obiettivo vitale per il futuro dell’Occidente, un obiettivo che coincide del resto con l’interesse dei popoli poveri della Terra.

Certo, si tratta di un impegno di lunga durata. E nel frattempo?

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Nel frattempo occorrono politiche regolative del fenomeno migratorio. Gli obiettivi sono due: non travalicare la capienza del sistema economico dell’Unione europea; sviluppare un’azione di contrasto alla delinquenza straniera non meno che a quella nazionale.

Quando un governo europeo ( tedesco, francese, spagnolo e così via ) mette in cantiere una legislazione restrittiva del fenomeno migratorio, preferisce di solito mettere l’accento sul secondo obiettivo, lotta alla delinquenza, piuttosto che sul primo: impedimento all’ingresso di migranti che non hanno ma che cercano lavoro. La ragione è semplice: la delinquenza non solleva, nell’animo degli europei, problemi di coerenza rispetto ai principi etici della civiltà europea. La povera gente che vuole un lavoro onesto, si.

Parliamo allora di contrasto alla delinquenza. La mia tesi è: tra integrazione e delinquenza la relazione è strettissima. Una integrazione che funziona bene riduce la delinquenza; una integrazione che funziona male genera delinquenza. Il miglioramento delle strategie integrative costituisce lo strumento principale per combattere la criminalità straniera. Le norme repressive, sebbene anch’esse necessarie, sono uno strumento ausiliario.

Da questo punto di vista mi pare importante stabilire un criterio di metodo. Le strategie di integrazione non possono ripetere all’infinito lo stesso errore di cecità sociologica che è stato fatto sino a oggi. L’errore consiste nel non considerare le diversità che pure sussistono all’interno della massa degli immigrati, e spesso si tratta di diversità notevolissime. L’errore consiste, appunto, nel trattare gli immigrati come una massa indifferenziata senza studiare le diversità che tra di essi si registrano.

In altre parole, l’errore (che a mio giudizio è un errore madornale), l’errore che si commette è quello di applicare la stessa strategia di integrazione a gruppi sociali ben differenziati. A me sembra che la strada da battere possa e debba essere un’altra: una eguale integrazione, come risultato finale, richiede politiche di integrazione diverse per gruppi disomogenei. Gli sciiti, ad esempio, hanno comunque una cultura più aggressiva rispetto ai sunniti; gli immigrati provenienti dalle Filippine, la maggior parte dei quali è di fede cattolica, presentano una disponibilità all’integrazione molto alta, come molto alta è anche quella degli immigrati provenienti dallo Sri Lanka. Tra gli immigrati dell’India vi sono musulmani e vi sono indù, e le due comunità hanno caratteristiche molto diverse che non si possono trascurare. E potrei continuare. Voglio dire che l’atteggiamento verso il problema dell’integrazione visto come problema la cui soluzione debba essere eguale per tutti, è un atteggiamento sbagliato. Voglio dire, molto semplicemente, che il processo di integrazione deve seguire percorsi differenziati. Voglio dire anche che l’integrazione è un problema nazionale e una funzione pubblica della massima delicatezza, il cui esercizio non può essere dato in appalto alla Caritas, né ad altri soggetti privati, ma deve essere esercitato dallo Stato in prima persona. L’integrazione non ammette supplenze!

Vorrei a questo punto segnalare un secondo argomento di metodo che riguarda questa volta la criminalità straniera operante in Italia. Il nostro Paese sembra essere, tra gli Stati membri dell’UE, un polo di attrazione della delinquenza straniera: la quale va così a sommarsi alla strabocchevole delinquenza indigena, organizzata o disorganizzata che sia. Questo fatto, almeno in larga misura, dipende dalla circostanza che in Italia il diritto penale è “dolce”, per cosi dire: le condanne arrivano dopo anni, la certezza della pena è un bene prezioso che in Italia però non conosciamo, nel carcere si entra e esce, prescrizioni e decadenze si succedono ininterrotte. Adesso, sotto la pressione dell’ennesima emergenza ( l’Italia, lo sapete meglio di me, è il Paese dell’emergenze: personalmente, ho ricordo della emergenza casa, dell’emergenza terrorismo, della ciclica emergenza incendi boschivi, dell’emergenza corruzione della classe politica, dell’emergenza mafia a cui sono aggiunte la camorra, la ‘ndrangheta e altre consimili, dell’ emergenza spazzatura in Campania; ora siamo all’emergenza immigrazione) – ; sotto la spinta dell’ennesima emergenza, dicevo, il governo in carica si è deciso a varare una legislazione più restrittiva nei confronti della delinquenza straniera. Osservo. L’Italia è membro dell’UE. L’UE è un soggetto unitario. Questo significa che vale all’interno dell’UE il principio dei vasi comunicanti, quel principio cioè relativo al comportamento dei liquidi in un sistema di recipienti che comunicano tra di loro: se la pressione è uguale, il liquido si porta alla stessa altezza nei diversi recipienti; se la pressione è diversa, il livello del liquido si abbassa in un recipiente e si alza negli altri. Mi spiego. La legislazione dell’Italia diventa più severa. La delinquenza straniera emigra dall’Italia e va in altri Paesi europei. Il problema nel suo complesso non si risolve. Quando un altro Paese europeo farà la stessa cosa, la delinquenza emigrerà di nuovo e magari rientrerà in Italia. Si avrà una spirale al rialzo della repressione penale nei confronti degli stranieri che non può essere sostenuta a lungo da Paesi democratici. La strada giusta è un’altra. Occorre una legislazione unica per l’intero territorio dell’UE. Questa è la soluzione giusta, la sola possibile soluzione. Naturalmente, quando parlo di una legislazione unica in Europa, parlo anche di un unico criterio di applicazione di quella legislazione, parlo di analoga durata dei processi, parlo di una magistratura organizzata e che operi in modo analogo nei diversi Stati europei. Questo intendo per legislazione unica in Europa.

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Quando parlo di legislazione unica in tema di immigrazione per l’intero territorio dell’UE, mi riferisco alla necessità di pervenire alla redazione di un grande Patto di civiltà che contenga lo Statuto europeo dei diritti del non cittadino.

Il Patto va mirato all’obiettivo di scrivere regole europee per le condizioni di entrata e circolazione dei cittadini dei Paesi terzi nel territorio degli Stati membri, nonché per le condizioni del loro soggiorno. Del resto, già gli articoli 1 e 2 del Trattato di Amsterdam avevano sottratto la materia dell’immigrazione e dei visti d’ingresso alla mera cooperazione intergovernativa, elevandola a oggetto di politica e di formazione comuni. Il carattere europeo delle regole destinate a disciplinare il fenomeno migratorio impone di accettare l’idea che l’UE possa stabilire essa stessa i criteri per l’acquisto della cittadinanza europea. Questo significa che, mentre oggi la cittadinanza europea si limita a completare la cittadinanza nazionale, dalla quale dipende, un domani sarà la cittadinanza dello Stato membro a completare la cittadinanza europea, eventualmente aggiungendovi altre e più ricche garanzie.

Il Patto dovrà inoltre rispondere alle finalità dell’Unione europea, le quali consistono (dalla Dichiarazione di Copenaghen del 14 dicembre 1973, fino al Preambolo della Carta dei diritti fondamentali facente parte del Trattato di Lisbona e agli articoli 2 e 3 dello stesso Trattato) nell’osservare i <<principi della democrazia rappresentativa, il regno della legge, la giustizia sociale – finalizzata al progresso economico – e il rispetto dei diritti dell’Uomo che costituiscono gli elementi fondamentali dell’identità europea>>. Il mancato rispetto di un livello accettabile di garanzia dei diritti umani per i non cittadini è destinato inevitabilmente a provocare, nel corso degli anni, una serie di azioni e reazioni tali da offuscare l’immagine dell’Europa e da ferire la coscienza europea.

Il Patto di civiltà dovrà essere discusso e approvato non solo dall’insieme degli Stati membri dell’UE, ma anche dalle maggiori rappresentanze in Europa dei non cittadini. In tal modo, il Patto non avrà i caratteri di un diktat fatto piovere dall’alto sui migranti poveri, ma avrà il carattere di un atto voluto da coloro stessi che ne saranno i destinatari.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

Stefano Cucchi, un caso su cui riflettere

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di Mario Patrono (*)

Chianciano 13 nov. 2009. Il testo dell’intervento del Professor Mario Patrono a Chianciano sul caso del giovane Stefano Cucchi, in cui si ritrovano anche alcune rilevanti osservazioni sul mercato del lavoro nel Sud.

Cari compagni radicali, Cari compagni socialisti,

abbiamo oggi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni morto di morte violenta dopo essere “transitato” nelle celle di sicurezza di Piazzale Clodio.

Osservo di sfuggita, per chi non lo sapesse, che qui parliamo delle celle di sicurezza del Tribunale penale di Roma, parliamo cioè del luogo dove lo Stato garantisce per antonomasia il rispetto della legalità; e lo garantisce nei confronti di chiunque, privati cittadini e pubblici funzionari.

Abbiamo quindi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi.

Una è di immediata evidenza. Persiste in Italia una concezione autoritaria dello Stato, che usa il distacco e la prepotenza – e a buon bisogno usa anche la violenza – come strumento per esercitare il controllo sociale. Una concezione autoritaria dello Stato che non accenna a venir meno, malgrado siano trascorsi ben più di 60 anni dalla caduta del fascismo. Una concezione autoritaria dello Stato che sembra anzi essersi rafforzata in questi ultimi anni e mesi.

Questa concezione autoritaria dello Stato si manifesta in forma individuale e in forma sistemica. La morte violenta di Stefano Cucchi, quella altrettanto violenta di Federico Aldrovandi, che la rubrica “Un giorno in Pretura” ha fatto rivivere in questi giorni, e poi la registrazione avvenuta nel carcere di Castrogno a Teramo su pestaggi a detenuti come pratica di contenzione: <<…abbiamo rischiato la rivolta…non si può massacrare un detenuto…si massacra sotto…>>, sono esempi di uso illegale della forza in relazione a casi singoli. Un uso illegale della forza da parte di agenti e funzionari della Polizia, penitenziaria e non, selezionati male, addestrati male, educati male, controllati male, pagati peggio che male e comunque all’interno di una mentalità autoritaria dello Stato. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che accetta e consente l’interminabile durata delle procedure giudiziarie che significa disprezzo per i diritti dei cittadini. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che sopporta senza batter ciglio il fatto che dentro una cella di 3 metri per 2, cesso compreso, possano ammassarsi per mesi e per anni 7 detenuti i quali hanno a disposizione 2 sole ore di “aria” al giorno; e tutto ciò avviene, malgrado che l’articolo 27, III comma, della Costituzione proibisca perentoriamente quei trattamenti di pena che appaiono contrari al senso di umanità.

A livello sistemico cioè delle istituzioni pubbliche, la presenza nello Stato di un forte residuo autoritario si manifesta in modo particolare nella giustizia, nella burocrazia, nella dirigenza politica sotto il profilo del loro rapporto con i cittadini.

La prima evidenza di una concezione autoritaria dello Stato si manifesta nel campo della giustizia e segnatamente nel processo penale. La giustizia penale è diseguale. La diseguaglianza è di vario tipo. Per cominciare, l’accusa ha nel processo penale facoltà sconfinate rispetto a quelle di cui dispone la difesa. E questo ha un peso negativo in particolare per il cittadino economicamente debole, nei confronti del quale questa situazione di disparità è semplicemente insostenibile. Si pensi al processo accusatorio che si fonda spesso su perizie costosissime. L’accusa non paga le perizie, mentre il costo delle perizie finisce sempre e comunque sulle spalle della difesa, non importa se la sentenza dichiarerà alla fine l’imputato colpevole o innocente. Vi sono persone che per sostenere le spese relative alle perizie, si sono rovinate economicamente. In altre parole, l’accusa esercita poteri investigativi e processuali larghissimi, e nel contempo può disporre di risorse finanziarie illimitate e del cui uso in relazione ai singoli processi nessuno è chiamato a rispondere.

C’è poi il potere della pubblica accusa di “selezionare” l’esercizio dell’azione penale, che è un potere vastissimo ed esorbitante. Ancora. L’esercizio dell’azione penale non è contenuto entro tempi definiti, là dove la civiltà giuridica moderna – viceversa – impone che l’azione penale debba esercitarsi entro limiti di decadenza molto brevi. Non è possibile che il cittadino abbia sospesa sul collo la mannaia dell’accusa penale a tempo indeterminato.

Né vi è in Italia una regolazione precisa della facoltà dell’imputato di ricusare il giudice. Nei Paesi anglosassoni la possibilità di ricusare i membri della giuria popolare, dalla quale dipende il verdetto, è larghissima. Il giudice popolare può essere ricusato anche solo se ha notizie relative al processo. In Italia il giudice non è ricusabile a causa di un capovolgimento, operato dalla Corte costituzionale, dei valori da bilanciare in questa materia: si è posto l’articolo 21 della Costituzione, libertà di manifestazione del pensiero, al di sopra del diritto alla vita e alla libertà personale. All’evidenza, è vero il contrario: la libertà di non finire in galera e magari di non morirvi va considerata senz’altro prevalente, e di gran lunga, rispetto alla libertà del giudice come privato cittadino di manifestare pubblicamente apprezzamenti e giudizi nei confronti dell’imputato. Questo è ovvio.

Infine, non è garantita nel nostro Paese l’imparzialità del giudice e la sua alterità strutturale, e non solamente funzionale, di fronte all’accusa. Giudice e pubblico ministero sono entrambi magistrati dell’ordine giudiziario, svolgono la stessa carriera, sono tra loro “colleghi”. Questo non va bene. Al riguardo, nessun effetto sembra aver avuto finora la norma sul giusto processo, entrata a far parte della Costituzione nel 2001. La quale norma si è dovuta scontrare in questi anni con l’atteggiamento ultraconservatore della Corte costituzionale e che comunque ha avuto vita applicativa assai modesta.

Un altro aspetto dove si manifesta in Italia una concezione autoritaria dello Stato è nel rapporto burocrazia/cittadini. Vi è stata negli ultimi venti anni una crescita dimensionale della burocrazia, e vi è stata di pari passo una crescita nel numero degli alti burocrati i quali sono venuti di fatto assumendo un ruolo di decisori politici. Si è verificata cioè negli anni scorsi una crescita di potere politico della burocrazia nei confronti dell’autorità politica e partitica. A ciò si aggiunge la circostanza dello spoil system all’italiana, per cui ogni governo che approda a Palazzo Chigi si affretta a nominare con contratti “a termine” i dirigenti generali che retribuisce secondo criteri di larga discrezionalità.

Tutto ciò determina una forte disparità tra cittadino e burocrazia nella misura in cui il cittadino è posto di fronte ad un ceto che di fatto è irresponsabile. Non si può cioè nei loro confronti esercitare quel giudizio di responsabilità politica “diffusa”, teorizzato a suo tempo da Giuseppe Ugo Rescigno, per cui il cittadino al momento e per mezzo del voto riesce “a sfiduciare” il “cattivo” politico. Da questo punto di vista la burocrazia gode anzi della più totale inamovibilità, accompagnata da un crescente peso politico. E anche questo non va bene. Negli Stati Uniti, che qui assumo come termine di paragone, tutti i poteri pubblici sono elettivi e tutti rispondono quindi ad una logica democratica. Perfino la Corte suprema (un misto tra la nostra Corte di Cassazione e la nostra Corte costituzionale) è eletta su base democratica: dal Presidente in contraddittorio con il Senato. In Italia, vi sono poteri pubblici eletti accanto a poteri pubblici non eletti: e questi ultimi rispondono ad una logica loro tutta “interna”. È questa una delle grandi debolezze della democrazia italiana.

A completare il quadro vi sono poi gli scarsi poteri del cittadino rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative: perché le norme sulla trasparenza si bloccano di fronte alla discrezionalità del decidere cosa “ammettere” alla trasparenza, e cosa no. Ancora. Non c’è un regolamento sulle priorità e sui tempi delle varie procedure, e qui ha origine l’arbitrio della burocrazia che si alimenta della oscurità e della complessità della legislazione italiana, tessuta di rimandi e contro rimandi a commi e sottocommi di leggi e leggine di varia epoca.

Una terza evidenza della concezione autoritaria dello Stato chiama in causa la dirigenza politica. Questa tende in Italia a nascondersi in aree segrete disseminate da cartelli <<vietato l’ingresso>>. Raramente i frammenti della catena accessibili alla vista formano un sistema coeso con punti d’ingresso chiaramente contrassegnati.

Al contrario gli ostacoli a un efficace controllo a vasto raggio dei cittadini sono numerosi e molti di essi sono invalicabili.

In Paesi meglio civilizzati del nostro una funzione di vigilanza continua, penetrante e a vasto raggio sul potere pubblico e chi lo detiene è esercitata dai mezzi di informazione. In Italia, però, i grandi giornali, quelli che “fanno opinione”, sono nelle mani di potenti gruppi industriali variamente intrecciati alla dirigenza politica, o sono collegati direttamente a partiti politici. La televisione pubblica, la sola di cui merita di parlare, è lottizzata “a tappeto” dai partiti politici: i quali, rotti finalmente gli indugi, la usano ormai anche come strumento al fine di difendere, per interposta persona, gli interessi personali del loro leader: l’editoriale “in video” di Augusto Minzolini, direttore del Tg1, di lunedì scorso, non saprei definirlo in altro modo che come uno spot a favore di Berlusconi. Una cosa mai vista in un Paese di democrazia accettabile.

D’altra parte, il referendum abrogativo delle leggi, voluto dal Costituente quale tipico mezzo di controllo popolare sulle scelte legislative operate in Parlamento dalle dirigenze politiche, è stato ben presto soffocato e reso ormai quasi inservibile, a seguito dell’affermarsi dell’idea di sottrarre a <<plebisciti>> e a <<voti popolari>> quelle che sono state definite <<le complesse, inscindibili scelte politiche dei partiti>> (Corte cost., sent. n. 16 del 1978). Si aggiunga, dulcis in fundo, che la legge elettorale in vigore consente alle dirigenze politiche di designare uomini e donne che andranno a sedere in Parlamento accanto e allo stesso titolo dei rappresentanti eletti dai cittadini.

Tutto ciò significa che si è spezzato in Italia il rapporto, che sussiste in qualunque democrazia consolidata, tra alcuni elementi fisiologicamente correlati: rappresentanza, controllo, responsabilità e giudizio politico al momento del voto.

Una dirigenza politica che può contare sull’indifferenza o sulla non/interferenza dei cittadini è fuori di un sistema democratico.

Naturalmente la causa di questa debolezza della democrazia italiana deriva in ultima analisi dal fatto che in Italia non c’è il primato della società civile sullo Stato, non c’è il primato del cittadino sullo Stato, a cui si accompagna una insufficiente coscienza sociale dei propri diritti.

Sta di fatto che il degrado del costume democratico nel nostro Paese è ormai intollerabile. Suscita indignazione in ciascuno di noi.

La domanda di oggi è: cosa dobbiamo fare per rimettere in moto la democrazia italiana? Io penso che abbiamo tutti del lavoro da fare, del gran lavoro: nelle Università, nelle scuole, dovunque possiamo esercitare la nostra influenza. Ma sono fiducioso che riusciremo, attraverso una pedagogia “mirata”, a creare una svolta attitudinale verso la politica; che riusciremo a suscitare nei cittadini un’attenzione permanente nei confronti del potere pubblico e le sue modalità di esercizio. Bisogna che si formi a livello di coscienza collettiva l’idea dell’obbligo per le istituzioni pubbliche di dare conto nei dettagli ai cittadini del loro operato. A partire da un punto. Ciascuno di noi ha diritto di sapere l’uso che si fa del denaro pubblico. Di sapere se il denaro pubblico è stato speso bene; se è stato sperperato; se è stato illegalmente sottratto. L’uso del denaro pubblico deve diventare un uso trasparente. Io come contribuente ho il dovere di partecipare alle spese pubbliche. Ma io come contribuente ho il diritto di sapere come il mio denaro è stato speso dagli amministratori pubblici. Per qualunque istituzione pubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Camera dei Deputati al Senato, dalla Corte di Conti agli uffici giudiziari grandi e piccoli fino ai minimi enti pubblici, il contribuente ha il diritto di sapere la quantità di denaro che serve per pagare gli stipendi del personale interno e per procurarsi e gestire i mezzi con cui erogare i servizi. Perciò il contribuente ha il diritto di sapere, ad esempio, chi sono i fornitori di qualunque istituzione pubblica, dalle maggiori alle minori; a quale prezzo – in relazione al prezzo corrente di mercato – la singola istituzione pubblica paga le forniture che acquista o prende in uso; e chi gestisce per la singola istituzione pubblica l’acquisto e la dismissione dei beni di proprietà o in uso all’ente. Si dovrà arrivare a tanto, facendo cadere uno ad uno i tanti “segreti di Stato” che oggi coprono – legalmente o illegalmente – questa materia.

A quel punto, diventerà allora chiaro anche il diritto dei cittadini di saperne di più circa la vita privata degli amministratori pubblici. Se il presidente della Regione X ha le emorroidi, o è gay, o fa uso di sostanze stupefacenti, a me contribuente non interessa né deve interessare. Ma se quel presidente (dico cose a caso) subisce ricatti a causa delle sue peculiari abitudini, o se ha sul groppone debiti ingenti e riesce malgrado ciò a sostenerli; se possiede ville a Capri, yacht, terreni a Cortina d’Ampezzo o discoteche a San Babila, io contribuente ho il diritto sacrosanto di sapere quale è la fonte di quelle ricchezze: se i risparmi di una vita certosina, se lo zio d’America che lo ha lasciato unico erede dei suoi beni, se l’appropriazione indebita di denaro pubblico (e quindi anche del mio denaro), se la corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Questo i cittadini hanno il diritto di saperlo. L’appello alla privacy, che oggi si fa da parte di amministratori pubblici e che riempie i giornali e le trasmissioni televisive, altro non è che l’ultima trincea del tentativo di sottrarsi al controllo dei cittadini. Questa trincea dovrà finalmente essere abbattuta. Una concezione davvero liberale e democratica dello Stato e della politica non può consentirne la sopravvivenza.

Sono utili le riforme istituzionali per cambiare dal profondo questo stato di cose? Certo, lo sono senz’altro: a patto, naturalmente, che si tratti di riforme giuste cioè di riforme necessarie ed appropriate. A patto che si tratti di riforme che mettano il cittadino al centro della politica e costruiscano l’ordinamento dello Stato, e dell’Unione europea, e delle autonomie locali a misura del cittadino e dei suoi diritti, allo stesso modo di come il sarto confeziona l’abito sulla misura del cliente.

Tuttavia, prim’ancora di qualunque riforma del quadro istituzionale, la possibilità stessa di aprire un varco nella fortezza chiusa della politica è legata, secondo me, ad una riforma in senso democratico dei partiti politici. Aprire i partiti politici a libere discussioni e votazioni sull’intero territorio nazionale; rendere elettiva la scelta delle rappresentanze politiche a tutti i livelli di governo e in ogni sede istituzionale; trasformare i partiti politici in ciò che essi sono per loro stessa natura e cioè articolazioni del sociale. A me sembra che questa debba essere la prima delle riforme da fare. Questa riforma, è chiaro, non basta. Ma almeno sarebbe (per usare la memorabile frase di Winston Churchill) <<la fine dell’inizio>>.

Vi è poi almeno un’altra ragione per occuparsi del caso di Stefano Cucchi.

Hanno scritto i giornali che Stefano Cucchi era uno spacciatore, e come tale fu arrestato. Non ho elementi per sapere se ciò fosse vero, o no. Quello che so per certo è che la vita di Stefano Cucchi sarebbe stata diversa se egli avesse trovato sulla sua strada una chance di lavoro dignitoso. Questo vale per lui come vale per i tanti giovani che conducono una vita grama, come lo era per lui. Questo però pone il problema dei giovani e del loro accesso ad un mercato chiuso del lavoro, dove ormai il solo lasciapassare che conta è la “raccomandazione”. Questa è una piaga italiana. Lo è soprattutto al Sud, dove l’economia privata è variamente intrecciata con l’economia pubblica. Qui la raccomandazione è la risorsa indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Risulta così contraddetto uno dei principi base della civiltà moderna, vale a dire il diritto al lavoro. Il diritto al lavoro significa che chiunque può competere sul mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri. Questa condizione di parità nel Sud non esiste. C’è una specie di forca caudina che molti giovani devono passare per accedere ad un posto di lavoro. Si ha quindi una stortura rispetto alle regole della libera ed eguale competizione nel mondo del lavoro. Un principio di giustizia proclamato dalla Rivoluzione francese è quello che lo status di cittadino, che l’ingresso verso una carriera professionale non deve dipendere né dalla condizione sociale né da quella economica, ma solamente dalle capacità personali. Del resto, il sistema della “raccomandazione” non è soltanto ingiusto. Esso crea condizionamento, dipendenza; crea umiliazione. Negli esclusi, uccide la speranza di una vita migliore.

Questa situazione chiama in causa il ruolo dei sindacati. Negli ultimi anni i sindacati si limitano a tutelare i lavoratori e i pensionati. Cioè si limitano a tutelare il diritto di lavorare e di godersi la pensione dopo aver lavorato. Quello che i sindacati, per difetto di cultura e a causa della loro stessa struttura oligarchica, invece non fanno è la difesa del diritto dei giovani al lavoro cioè il loro diritto di accedere al lavoro. Anche qui, un grande passo avanti sarebbe quello di dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che i sindacati debbano avere <<un ordinamento interno a base democratica>>. Questo determinerebbe una svolta attitudinale dei sindacati nei confronti del lavoro. Il percorso su questa strada è però ancora lungo.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

Una montagna di rifiuti, il ciclo integrato e l'incantesimo degli inceneritori

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di Giuseppe Candido

Foto: Giuseppe Candido
Foto: Giuseppe Candido

I titoli dei quotidiani non lasciano dubbi: i rifiuti in Calabria sono un bel guaio. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate, il problema dei rifiuti e della depurazione tornano d’attualità in maniera preponderante. “Quella discarica dimenticata: un vergognoso sipario che deturpa la città” è il titolo di un articolo sul caso di una (ennesima) discarica abusiva a Rossano, ancora abusivamente utilizzata nonostante il sequestro effettuato dalla benemerita in relazione alla presenza di eternit. “Rifiuti pericolosi a cielo aperto” è invece il titolo utilizzato per la notizia del sequestro, a San Gregorio d’Ippona nel vibonese, di una discarica di 300 mila metri cubi in cui venivano abusivamente, manco a dirlo, smaltiti rifiuti pericolosi provenienti dalla demolizione di edifici. Discariche abusive, siti di stoccaggio provvisorio che diventano definitivi e a cui la Regione non riesce a stare dietro con le bonifiche. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 settembre del 1997 dichiarò lo stato di emergenza nella Regione Calabria in ordine alla situazione di crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Stato di emergenza ambientale che con successivi decreti è stato prorogato sino ad oggi ed allargato anche per la questione della depurazione. Un’emergenza che dura da circa dodici anni e che ancora non vede una soluzione definitiva.

Non entro nella polemica, tutta politica e giudiziaria, di come siano stati spesi (male) i soldi della comunità europea: consulenze ad amici, appalti pilotati a ditte in odor di ‘ndrangheta e dipendenti fantasma (41) come scrisse (leggi denunciò) nella sua relazione il prefetto Antonio Ruggiero quando abbandonò la struttura commissariale calabrese. Non vale la pena anche perché, quando a farlo è qualche magistrato, o anche qualche giornalista, lo si trasferisce. Ma vorremmo cercare di capire. Cercare di capire perché siamo così indietro colla raccolta differenziata (solo il 18% della raccolta totale a fronte dell’obbiettivo, ormai non più conseguibile del 65% entro il 2010). Vorremmo capire perché le discariche si stanno riempiendo, tutte, con velocità maggiori e in tempi più brevi di quelli che erano stati previsti da progetto. Vorremmo capire perché, soprattutto, in una terra che dovrebbe puntare tutto sulla valorizzazione delle sue enormi ricchezze paesaggistiche ed ambientali, si continua invece a gettare rifiuti senza differenziarli, in discariche abusive e stoccando materiali pericolosi che mettono a serio rischio la nostra salute e l’ambiente: l’aria, le acque superficiali, le acque sotterranee, il mare e il suolo. Ci piacerebbe capire perché, in Calabria, non si riesca a far partire quel benedetto “ciclo integrato” dei rifiuti e perché non si riesca a passare dalla tassa sui rifiuti (cd Tarsu) ad una tariffa che tenga conto non soltanto dei metri quadri di abitazione ma anche della quantità dei rifiuti prodotti e del virtuosismo che i cittadini hanno nell’effettuare la raccolta differenziata. Soltanto nel 2007, noi calabresi abbiamo prodotto 990.672 tonnellate di rifiuti, una montagna di monnezza, di cui soltanto il 18 % (178.321 tonnellate) di raccolta differenziata. Quattrocentosettantotto i chilogrammi di rifiuti prodotti da ciascun calabrese in un anno e di cui soltanto ottantasei raccolti differenziando il materiale: una vergogna. Siamo ancora troppo distanti da quel 65% previsto dalla legge del 2006 che prevede il raggiungimento dell’obbiettivo entro il 2010 o, al massimo, entro il 2012.

Già questo consente di fare una prima valutazione. Un serio ciclo integrato dei rifiuti, che è l’alternativa al continuo aprire discariche e inceneritori, dovrebbe incentivare la riduzione della produzione di rifiuti. Come? Incentivando, per esempio, consumi “alla spina” di bevande e detersivi, e riutilizzando più volte i contenitori. Risparmieremmo pure. Leggere i giornali e le riviste on line consentirebbe di risparmiare circa 70 Kg/anno pro capite di carta. Bere acqua del rubinetto o riutilizzando i contenitori di vetro per acquistarla sfusa, assieme all’uso di bicchieri di vetro, consentirebbero un risparmio di oltre 125 Kg/anno pro capite di plastica.

Nell’ultimo piano regionale approvato per la gestione dei rifiuti in Calabria sono state evidenziate le principali criticità del sistema che riguardano sia aspetti strutturali sia aspetti funzionali. Accanto al deficit di impianti dovuto al non avvenuto completamento di alcune strutture, si lamenta l’insufficienza proprio della raccolta differenziata e il totale mancato avvio della raccolta differenziata dell’umido organico. Il tutto in un contesto, come si legge nello stesso piano regionale, reso scarsamente efficiente per l’eccessivo numero di “sotto ambiti” e di società che gestiscono la raccolta differenziata. Gli obiettivi del piano previsti per la raccolta differenziata non sono stati conseguiti e, anzi, si è ancora ben lontani dal loro raggiungimento. Tali criticità di sistema sono particolarmente rilevanti poiché causano un effetto a catena sulle altre fasi del trattamento dei rifiuti. Infatti, in assenza di un’adeguata raccolta differenziata aumenta il carico di rifiuti sulle discariche dove viene immessa una quantità di rifiuti tal quale superiore a quella prevista e superiore ai limiti fissati dalla normativa vigente. Situazione aggravata, se ciò non bastasse, dalla mancata utilizzazione degli impianti per la valorizzazione della raccolta differenziata e dalla scarsa funzionalità del sistema di raccolta a causa dell’attuale suddivisione del territorio regionale in 14 sotto ambiti in cui l’affidamento della raccolta differenziata ad una società mista all’interno di ciascun sotto ambito è inadeguata.

Ma se questo è il panorama regionale la domanda è: come uscirne? Come avviare la fine di un’emergenza che dura da dodici anni? Costruendo altre discariche? Nuovi inceneritori? L’alternativa c’è, ma necessita di un salto culturale: si chiama “ciclo integrato dei rifiuti” e prevede, come già accennato, il passaggio da una tassa ad una tariffa sui rifiuti: chi più produce rifiuti più paga.

Oltre alla riduzione alla fonte dei rifiuti da incentivare con la diffusione di comportamenti “ecologici” dei consumatori, il ciclo integrato prevede la raccolta differenziata porta a porta, il compostaggio e il trattamento meccanico-biologico a freddo.

A differenza del sistema a cassonetti stradali, quella porta a porta ha dimostrato di consentire di arrivare, in tempi brevi, a percentuali tra il 65 e l’85% di differenziata. Non è un’utopia: a San Francisco (USA) dove sono 800.000 gli abitanti, il 67% dei rifiuti viene raccolto in maniera differenziata. A Novara (100.000 abitanti) si arriva al 70% di differenziata. Stesse percentuali in alcuni quartieri di Reggio Emilia dove il sistema porta a porta è integrato con quello delle isole ecologiche. E ancora: a Roma, nel quartiere Colli Aniene, si arriva al 63%; a Treviso (oltre 220.000 abitanti) addirittura il 75% dei rifiuti sono differenziati. Ma la differenziata non basta: è necessario innescare a valle una filiera del riciclaggio per produrre nuovi oggetti e dalla quale è senz’altro possibile creare posti di lavori “ecologici” che potrebbero diventare un volano positivo contro la crisi in atto. L’organico, anch’esso raccolto porta a porta, andrà agli impianti di compostaggio per produrre fertilizzante. Ciò può essere fatto anche a livello domestico o condominiale per produrre concime per le proprie aree verdi.

Per quello che comunque non è riciclabile è ancora troppo presto per la discarica o per l’inceneritore. Lo si può trattare senza incenerire ed evitando di inviare in discarica le ceneri tossiche o il materiale tal quale ancora putrescibile e quindi pericoloso per i percolati che produce. Mediante il trattamento cd meccanico-biologico a freddo che in Germania risulta in grande evoluzione: 64 gli impianti di TMB contro i 73 inceneritori. I rifiuti che rimangono indifferenziati e non riciclati vengono dapprima selezionati da appositi macchinari cercando di recuperare ancora vetro, metalli ed altro materiale riciclabile. Dopodiché il rimanente viene inviato in appositi “bio-reattori” chiusi e con “bio-filtri” che essiccano, a 40-60°C, ciò che rimane. Il tutto senza bruciare e producendo biogas utile per far funzionare l’impianto stesso. Il materiale così essiccato è ridotto del 40 – 50% rispetto alla massa in ingresso, non è più putrescibile e non è nemmeno una cenere tossica come quella che invece esce dagli inceneritori. Essendo reso inerte, il materiale prodotto dal trattamento meccanico biologico lo si può riciclare in edilizia come sottofondo stradale. Gli inceneritori non eliminano le discariche ma, anzi, producono ceneri tossiche in quantità pari a circa il 25% di ciò che viene bruciato, e che richiede particolari accorgimenti per essere smaltite. Come scrisse nel 1993 il Wall Street Journal: quello degli inceneritori è (e resta ancora) il metodo più costoso di smaltimento dei rifiuti. Un impianto di trattamento meccanico biologico costa invece il 50-70% in meno di un inceneritore e il materiale che rimane è riutilizzabile come inerte o per produrre combustibile da rifiuti. Nell’ambito di un ciclo integrato dei rifiuti, assieme alla raccolta differenziata porta a porta e al compostaggio dell’umido, il trattamento meccanico biologico a freddo viene accettato più facilmente dalle popolazioni perché ha costi ambientali decisamente inferiori consentendo di abbattere gran parte degli inquinanti: 5 kg di polveri prodotte per tonnellata di rifiuti trattate contro i 38 kg degli inceneritori; 78 Kg di ossidi di azoto (nitrati e nitriti) contro i 577 kg per tonnellata di rifiuti trattati con inceneritore; scarti solidi pesanti a tossicità media contro quelli a tossicità alta sempre degli inceneritori; pochi fumi a bassa tossicità contro elevati quantitativi di fumi ad elevata tossicità degli inceneritori; 40 nanogrammi di diossine per tonnellata trattata che, con particolari accorgimenti, possono scendere addirittura a 0,1 nano grammi, contro i 400 nanogrammi rilasciati degli inceneritori per ogni tonnellata di rifiuti trattati.

Il ciclo integrato e il trattamento meccanico biologico a freddo per uscire dall’emergenza senza cadere nell’incantesimo degli inceneritori che volge al termine in tutta l’Europa.

E’ questa la politica da perseguire, per risolvere una volta per tutti il problema dei rifiuti. Per evitare che, colmate le discariche esistenti deflagri la bomba “monnezza” e la si contenga con i “salubri” inceneritori.

Paternostro liberale dei Calabresi: per il diritto e la legalità istituzionale

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Calabria, 28 settembre 2008. Filippo Curtosi, Giuseppe Candido e Francesco Callipo, rispettivamente direttore responsabile, vice direttore e responsabile alla distribuzione di “Abolire la miseria della Calabria” – mensile indipendente di cultura laica, liberale, socialista, federalista, ecologista, nonviolenta, radicale –  aderiscono a sostegno dell’iniziativa nonviolenta proposta da Marco Pannella dai microfoni di radio radicale durante la consueta conversazione settimanale con il direttore dell’emittente Massimo Bordin. L’iniziativa gandhiana del leader radicale si concretizzerà a partire dalle 12 e un minuto di lunedì 29 settembre con un digiuno di Pannella. Ad oltranza? Non lo sappiamo, questo a radio radicale non lo ha detto. I motivi dello sciopero della fame: sostenere il nostro Presidente della Repubblica nel suo compito di assicurare il rispetto della legge e della legalità delle nostre Istituzioni garantendo l’elezione, da parte del Parlamento ancora oggi inadempiente nel suo dovere, del sedicesimo giudice ancora mancante al plenum della Corte Costituzionale e del Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanzasul servizio pubblico televisivo. Come ha già fatto in passato, Marco Pannella tutto questo lo fa per il rispetto della legalità. Per il rispetto della legalità e della vita stessa del diritto anche noi (spero saranno in tanti) ci uniamo (per 24 ore simboliche a partire dalle 12.01) a questa assai nobile proposta di sostegno del nostro Presidente Giorgio Napolitano a compiere il ruolo di garante delle Istituzioni a lui affidato dalla nostra Costituzione. Crediamo che non possa esservi democrazia, in un Paese, senza il rispetto del salveminiano e sacrosanto “conoscere per Deliberare”, senza un servizio pubblico televisivo rigorosamente vigilato nel suo importante compito.

Dal nostro piccolo, dalla Calabria che tanto amiamo ma che troppo spesso notiamo prospera d’illegalità Istituzionale e di convivenze, ci permettiamo soltanto di far “rimirare” e aggiungere, ai motivi dello sciopero della fame, anche quello per garantire l’elezione della Commissione Parlamentare antimafia, anti ‘ndrangheta, anti camorra o come la si voglia comunque chiamare.

E vogliamo farlo rivolgendo una preghiera: il “Paternoster dei liberali calabresi” che Antonio Martino (1), manco a dirlo pure lui calabrese, nel 1866 scriveva per i calabresi allora sotto la pressione degli ingenti tributi rvolgendosi al Re Vittoriu (Padrenostro liberale appunto):

O patri nostru, ch’a Firenzi (oggi a Roma) stati,

lodatu sempi sia lu nomi vostru,

però li mali nostri rimirati,

sentiti cu pietà lu dolu nostru,

ca si cu carità vui ndi sentiti

certu non fati cchiù ciò chi faciti

**********

Patri Vittoriu, re d’Italia tutta,

apriti ‘ss’occhi, ‘ss’aricchi annettati:

lu regnu vostru è tuttu suprasutta,

e vui, patri e patruni, l’ignorati.

Li sudditi su’ tutti ammiseriti:

vu jiti a caccia, fumati e dormiti.

**********

Ministri, senaturi e deputati

fannu camurra e sugnu ntisi uniti,

prefetti, cummessari e magistrati

sucandu a nui lu sangu su’ arricchiti.

E vui patri Vittoriu non guardati:

vui jiti a caccia, fumati e dormiti.

(1) Padrenostro liberale, Antonio Maritno, Re, poeti e contadini. La Poesia dialettale calabrese dell’ottocento di Carlo Carlino, Barbaro editore, 1998

Calabria: prepensionamenti d'oro ai dirigenti regionali. Reato plitico e morale

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di Giuseppe Candido

Un piccolo quotidiano regionale “il domani della Calabria” in questi giorni ha condotto una interessante inchiesta sui costi della politica. Nello specifico, l’inchiesta si è occupata di circa 300 prepensionamenti di altrettanti dirigenti regionali ai quali è stato riconosciuto un’incentivo di circa 570.000 euro oltre a buonuscita e pensione. Risultato: più di 150 milioni di euro come danno alle casse della regione. L’industriale del tonno calabrese, Filippo Callipo ha affermato che se un imprenditore facesse con i propri dirigenti di azienda ciò che la regione calabria ha fatto con i suoi sarebbe considerato un PAZZO. Questo è uno schiaffo al comune senso della decenza istituzionale diciamo noi. Dopo i porta borse assunti con legge speciale anche i dirigenti prepensionati con incentivi che un qualsiasi laureato oggi, minimamente neanche sogna al momento di un suo futuro pensionamento che invece è sempre più aleatorio e affidato a fondi integrativi. W l’Italia.