Generoso cuore, ferro e libertà: la via calabrese verso l’Italia Unita

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a cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Pubblicato su “Abolire la miseria della Calabria” – Anno VI n°1-2-3 G/F/M 2011

Calatafimi, Salemi, Alcamo, Monreale, Palermo passando per il Piano di Renda. Poi lo sbarco a Milazzo dove si combatté per le strade cittadine finché i “regi borbonici preferirono ritirarsi nella fortezza dove furono poi costretti alla resa”. Dopo essere sbarcato a Marsala l’11 maggio del 1860, in due mesi e mezzo Garibaldi si era impadronito dell’Isola. Aveva ripetutamente sconfitto forze di gran lunga superiori alle sue per numero e per armamento; aveva provocato una serie di insurrezioni in tutta la Sicilia rendendola ribelle alla dinastia borbonica ed offrendo ad essa la libertà. Sbarcato a Marsala con soli mille uomini, Garibaldi disponeva ora di una forza decuplicata, ancora numericamente inferiore all’esercito borbonico ma con una consistenza sufficiente per affrontare la nuova impresa: il passaggio dello Stretto di Messina e l’avanzata nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie.

 

Da Melito Porto Salvo a Soveria Mannelli

Un nuovo contingente di ottomila volontari, raccolti da Agostino Bertani, era destinato a sbarcare nello Stato pontificio. Ma il Cavour si mostrò ostile all’iniziativa e riuscì ad ottenere dal Bertani che i volontari venissero condotti in Sardegna e di là in Sicilia da dove sarebbero stati liberi di muovere verso lo Stato romano. Lo stesso Bertani, raggiunse Garibaldi a Messina per invitarlo a recarsi in Sardegna ad assumere il comando della spedizione contro lo Stato pontificio. Mentre il Generale si trovava in navigazione verso la Sardegna, la notte dell’otto agosto del 1860 ci fu il primo sbarco sulla costa calabra: seguendo le disposizioni impartite da Garibaldi, duecento uomini tra i più provati e ardimentosi furono inviati con agili scialuppe ad occupare il fortino di Altafiumara a Villa San Giovanni. Il calabrese Benedetto Musolino aveva garantito di essersi accordato coi sottufficiali del fortino; il drappello era comandato dal Racchetti e tra i componenti vi erano il Missori, il Nullo e Alberto Mario, che da poco aveva raggiunto il Garibaldi in Sicilia. Ma il tentativo non ebbe buona riuscita; i sottufficiali non dettero alcuna collaborazione ed il gruppo dovette desistere e ritirarsi sull’Aspromonte dove riuscì ad ottenere l’appoggio di quattrocento volontari calabresi. Nascevano così i Cacciatori della Sila.

Lo sbarco in Calabria a Mélito Porto Salvo

Rientrato dalla Sardegna, Garibaldi sostò a Palermo da dove ripartì compiendo il periplo dell’Isola e raggiungendo il 18 agosto le coste di Taormina dove ad attenderlo c’era il Generale Bixio con quasi quattromila uomini già pronti per la partenza che avvenne la sera dello stesso giorno; all’alba del 19 agosto la spedizione giungeva sulla costa ionica della Calabria approdando a Mélito Porto Salvo dove lo sbarco ebbe luogo senza conflitti: le navi borboniche arrivarono ad operazioni concluse accontentandosi di affondare una delle due navi ch’erano servite per lo sbarco.

Reggio Di Calabria

La strada costiera da Mélito a Reggio fu il primo tragitto calabrese dei garibaldini che intanto si erano ricongiunti con il gruppo del Racchetti e del Missori discesi dall’Aspromonte a Mélito appena furono avvertiti dell’arrivo di Garibaldi in Calabria. Reggio, d’altronde, era stata la prima città della Calabria che, alla notizia dello sbarco dei Mille a Marsala, aveva proclamato decaduto il dominio borbonico.

Sbarcato all’alba del 19 agosto a Mélito Porto Salvo, Garibaldi ordinò subito la marcia su Reggio presidiata da una nutrita guarnigione sotto il comando del generale borbonico Gallotti, il quale, venuto a conoscenza dell’avvicinarsi di Garibaldi, aveva ordinato al Colonnello Dusmet di apprestare una linea di difesa lungo la cerchia esterna della città. La sera del 20 agosto le camicie rosse aggirarono i Borboni e penetrarono nell’abitato di Reggio Calabria dove si accese una sanguinosa battaglia. Lo stesso comandante borbonico cadde colpito a morte mentre conduceva i suoi all’attacco; la forza degli attacchi dei garibaldini e la morte del Dusmet costrinsero i borbonici a rifugiarsi dentro il castello della città dove aveva preferito restare il Generale Gallotti. Il castello però venne stretto d’assedio da una squadra della colonna Missori capitanata da Alberto Mario e, il 22 d’agosto, il Gallotti fu costretto anche lui “ad alzare bandiera bianca”. Per aiutare i Borboni di Reggio era sopravvenuto, a resa però già avvenuta, anche il generale Briganti; il Garibaldi gli andò incontro a Gallico, un paesino a cinque chilometri a nord di Reggio, disperdendone le truppe dopo una breve mischia.

Il secondo sbarco: Favazzina

Contemporaneamente, durante la notte tra il 21 e il 22 agosto il generale Cosenz portava in territorio calabrese la brigata Assanti e la compagnia dei volontari francesi; la nuova spedizione sbarcava a Favazzina, un paesino di 400 anime, tra Scilla e Bagnara, a Nord Est di Villa San Giovanni. Avanzando verso l’interno la spedizione sosteneva alcuni scontri contro i reparti borbonici dispiegati a presidio di alcune località calabresi. Dopo aver ributtato alcune truppe borboniche a Favazzina si dirigeva per Bagnara verso Solano. Durate uno di questi scontri con cariche “alla baionetta” cadeva pure il comandante dei volontari francesi De Flotte, “uno di quegli esseri privilegiati – scriveva Garibaldi – cui un solo paese non ha diritto di appropriarsi. Così il Garibaldi teneva le posizioni di Reggio e Villa San Giovanni mentre il Cosenz quelle dispiegate tra Villa e Bagnara Calabra.

I corpi borbonici del generale Melendez e quelle del generale Briganti, in vista d’essere accerchiati, si arresero; ma la vera ragione della mancata resistenza delle truppe di Francesco II fu il fenomeno della diserzione che assunse proporzioni enormi e che, quotidianamente, intaccò i contingenti borbonici, togliendo ai comandanti la fiducia delle loro truppe.

Da Reggio di Calabria e Bagnara Calabra a Monteleone e Soveria Mannelli

Dopo la resa di Reggio (21 agosto), dispersi i novemila uomini del Melendez e del Briganti, Garibaldi proseguì lungo la costa del Golfo di Gioia Tauro ed intraprese la sua rapida marcia verso Nord: il 25 agosto arrivò a Palmi, il 26 a Nicotera, e il 27 giunse a Monteleone di Calabria (dal 1928 Vibo Valentia) dove venne accolto trionfalmente dalla popolazione che aveva visto il generale Ghio abbandonare la città con la sua colonna decimata dalle diserzioni. A Monteleone molti patrioti calabresi si aggiunsero alle fila di Garibaldi: Michele Morelli, Luigi Bruzzano, Vincenzo Ammirà sono soltanto alcuni dei nomi di intellettuali che seguirono l’eroe dei due Mondi.

Proveniente da Monteleone, Garibaldi giunse a Maida (CZ) il 29 agosto venendo accolto, anche qui, da una popolazione acclamante: <<Non è tempo di feste>>, disse alla folla da un balcone. <<I dodicimila uomini comandati dal trucidatore di Pisacane, il generale Ghio, ci aspettano sull’altopiano di Soveria>>. E così fu: Garibaldi il 29 sera era arrivato a Tiriolo. Ghio tentò la ritirata verso Napoli ma, proprio a Soveria Mannelli, fu raggiunto da Garibaldi. All’alba del 30 agosto i calabresi garibaldini, “Cacciatori della Sila”, comandati dal barone Francesco Stocco e inviati da Garibaldi avevano preso posizione attorno al paese mentre, da Tiriolo, giungeva l’avanguardia del Cosenz seguito da Garibaldi e dal suo stato maggiore.

Dopo un accenno di resistenza, considerato che i suoi soldati rinunciavano a combattere dandosi alla fuga, il 30 agosto del 1860 Ghio accettò la resa. All’ingresso dei Soveria Mannelli, all’epoca dei fatti cittadina con poco più di duemilacinquecento abitanti, sorge oggi un monumento detto “Colonna Garibaldi” eretto in ricordo della capitolazione del corpo borbonico comandato dal generale Ghio. Esso è realizzato da un obelisco di bella fattura con trofei bronzei e posato su un basamento a gradini

Tre giorni prima, il 27 d’agosto anche il generale borbonico Caldarelli aveva lasciato Cosenza dove la popolazione, appresa la notizia della caduta di Reggio di Calabria (21 agosto), aveva costituito un governo provvisorio. E pure a Catanzaro un governo provvisorio era stato istituito in città dopo la notizia della presa della città dello Stretto.

Così, alla fine dell’agosto 1860, Garibaldi aveva liberato completamente la Calabria dai Borboni: l’esercito del generale Vial, comandante supremo delle forze borboniche in Calabria, forte di trentamila uomini, era completamente disfatto. Una piccola parte di esso aveva ripiegato su Napoli, ma la maggior parte si era dispersa con la diserzione e casi di interi reparti borbonici calabresi che chiesero di essere arruolati nell’esercito garibaldino.

La situazione era profondamente mutata: <<Italiani! Il momento è supremo. Già i fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore dell’Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare di là insieme alle venete terre. Tutto ciò che è dover nostro e diritto, potremo fare se forti. Armi, dunque, ed armati. Generoso cuore, ferro e libertà>>.

 

Perché non possiamo sostituire il 25 aprile con un’altra data

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di Giuseppe Candido

Con il lunedì dell’Angelo che quest’anno cade proprio il 25 d’aprile la festa della liberazione è passata in secondo piano restando miserevolmente relegata all’editoriale di Giampaolo Pansa su Libero nella giornata della Santa Pasqua. Un editoriale che, forse provocatoriamente, sosteneva che sarebbe meglio festeggiare la ricorrenza il 18 di aprile anziché il 25 per ricordare la vittoria, in seno all’assemblea Costituente, dei Democristiani di De Gaspari. Un po’ superficiale come analisi e sicuramente trascurata la ricostruzione storica. La Resistenza italiana, chiamata anche Resistenza partigiana o “Secondo Risorgimento”, fu l’insieme dei movimenti politici e militari che dopo l’8 settembre 1943 si opposero al nazifascismo nell’ambito della guerra di liberazione italiana. La lotta di liberazione da un invasore straniero, l’insurrezione popolare e la guerra civile tra antifascisti e fascisti, o il tentativo di rivoluzione da parte di alcuni gruppi partigiani socialisti e comunisti?

Il movimento della Resistenza – storicamente inquadrabile nel più ampio fenomeno europeo della resistenza all’occupazione nazifascista – fu caratterizzato in Italia dall’impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici (cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici), in maggioranza riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale i cui partiti componenti avrebbero più tardi costituito, insieme, i primi governi del dopoguerra.

Piero Calamandrei, nei suoi scritti, paragona le origini delle Resistenza all’improvviso sbocciare delle primavera: “Quasi un miracolo da paragonarsi ai miracoli della natura che fanno spuntare i fiori e le gemme in un giorno dato”. È forse l’immagine più bella che ne viene data ma, in verità, quella “primavera” italiana, destinata a durare 20 mesi, fu preparata nel “lungo inverno del fascismo”. La Resistenza maturò nelle tenebre della cospirazione, nell’isolamento dell’esilio, nell’odore di muffa delle carceri e dei luoghi di confino, e richiese il sacrificio di numerosi patrioti. Non si può comprendere il significato della Resistenza nei venti mesi durante occupazione tedesca senza guardare alla “resistenza lunga” che vi fu nei venti anni del regime fascista. Basta leggere un qualunque testo scolastico (non tra i più recenti dove la parola Resistenza tende ad essere cancellata) per intuire che non è possibile comprendere il significato della Resistenza nei venti mesi dell’occupazione tedesca senza rifarsi alla “resistenza lunga” durata 20 anni nel regime fascista. Senza questo legame col ventennio la Resistenza italiana un mero episodio militare, importante ovviamente, ma certamente secondario rispetto al dispiegamento di forze che condussero alla fine del nazismo. Se la si legge così, se si leggono i soli venti mesi di Resistenza “breve”, quel movimento politico che portò alla liberazione resta schiacciato ad un semplice contraccolpo, interno alla vita della Penisola, di quel rovesciamento di fronte che portò l’Italia dall’alleanza con Hitler alla co-belligeranza con gli alleati. La Resistenza diventa un momento drammatico di lacerazione e guerra civile, dominato dalla violenza e dalla crudeltà. In quest’ottica i GAP, i gruppi di azione patriottica che liberarono Pertini e Saragat, diventano per Pansa dei “terroristi di città”.

La Resistenza italiana
La Resistenza italiana di Renato Guttuso

Se ci si limita superficialmente a quest’analisi si fa presto a sostenere che è inutile festeggiarla, che è inutile ricordare quell’atto di liberazione e si conviene sulla possibilità di spostare la data al 18 aprile per ricordare, come propone Pansa, la vittoria nel ’48 di Alcide De Gasperi sui comunisti.

Solo se invece si guarda al suo legame con la ventennale opposizione al regime fascista, la Resistenza assume il suo pieno significato storico: momento culminante di sviluppo e di affermazione di una nuova coscienza civile e politica che troverà nella Costituzione repubblicana la sua espressione giuridica.

Solo in quest’ottica la Resistenza diviene, assieme all’antifascismo, il presupposto essenziale della Repubblica italiana che, in questa matrice, trova il suo connotato storico più marcato.

Per capirlo bisognerebbe rileggere attentamente, e Pansa dovrebbe farlo per primo, il volume “La Resistenza italiana, dall’opposizione al fascismo alla lotta popolare” edito, in occasione dei trent’anni della liberazione, da Mondadori nel 1975 per cura del Ministero della (allora) Pubblica Istruzione. “La Resistenza, vista sotto questa luce, non quale episodio isolato ma nel suo rapporto da un lato con l’antifascismo che l’ha preparata e dall’altro con la Repubblica che da essa è nata, acquista tutta la sua rilevanza nella del nostro Paese: per un verso essa si ricollega alla tradizione risorgimentale perché si ispira a quegli stessi valori d’indipendenza nazionale e di libertà che hanno guidato la nostra formazione unitaria; ma per altro verso supera la tradizione risorgimentale e la integra nella misura in cui rappresenta un momento di più profonda partecipazione popolare, di inserimento delle classi operaie e contadine nella vita di uno Stato nato essenzialmente dall’iniziativa di ceti sociali più elevati”.

Una lotta tra “minoranze”? Gli italiani non parteciparono né coi fascisti né coi partigiani come sostiene Pansa? Forse è vero. Però bisognerebbe ricordare pure che non soltanto la Resistenza, ma tutta la storia dell’Italia unita, dai moti del 1848 sino alla Costituente repubblicana, è stata percorsa dall’esigenza di una maggiore partecipazione dei ceti popolari alla vita dello Stato. “Il progressivo allargamento del suffragio elettorale, l’espandersi delle organizzazioni operaie e contadine, lo sviluppo del sindacalismo, la progressiva affermazione dei grandi partiti popolari sono i segni di questo processo di crescita della società italiana”. Un’esigenza di maggiore partecipazione popolare alla vita dello stato che, probabilmente, grazie anche al mancato ruolo svolto proprio da partiti secondo quanto previsto dall’articolo 49 della nostra Costituzione, ancora esiste. Lo Stato liberale mazziniano, anche attraversando contrasti e conflitti drammatici, aveva dato spazio a questa “crescita civile” della società italiana. Un processo che però s’interrompe coll’affermazione del fascismo che nega ogni diritto di libertà ai cittadini e piega al servizio del Partito dominante il potere dello Stato.

Pietro Scoppola, storico, docente e politico, considerato uno dei principali esponenti italiani del cattolicesimo democratico che dal ’74 al ’78 fu capo redattore della rivista Il Mulino, nel contributo al volume citato scrisse che “il 25 di Aprile del 1945 il primo e più immediato obiettivo della Resistenza è raggiunto: tutto il Paese è libero dai tedeschi, il fascismo è sconfitto. Ma la strada che resta ancora da percorrere è lunga e piena di ostacoli …”.

“Al 25 aprile” – dichiarava in un’intervista Giorgio Amendola – “non siamo arrivati da trionfatori, ma con l’acqua alla gola. Quello che mi irrita, invece, è la rappresentazione schematica della Resistenza che avrebbe potuto fare e disfare a suo piacimento, e non fece per pavidità della direzione politica”.

L’Assemblea Costituente, che in massima parte era composta proprio dagli esponenti di quei partiti (comunisti, socialisti, azionisti, anarchici e democratici) che avevano dato vita ai Comitati di Liberazione Nazionale, fondò la Costituzione repubblicana sulla sintesi tra le diverse tradizioni politiche e l’spirò ai princìpi della democrazia e dell’antifascismo. La scelta di celebrare la fine di quel periodo funesto il 25 di aprile fu scelto dal CLNAI “con la data dell’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano”. È vero, la Resistenza italiana fu il primo atto del “periodo costituzionale transitorio”. La seconda parte terminerà invece il 1º gennaio 1948, giorno dell’applicazione della nuova Costituzione Italiana. Davvero vorremmo cambiare per questo la data della celebrazione del 25 aprile del ’45 e sostituirla con quella del 18 aprile del ’48? Proprio nel clima politico in cui oggi viviamo, il richiamo alla Resistenza e all’antifascismo si fa meravigliosamente denso di significati.

Anche oggi, il richiamo alla Resistenza che sta nella data del 25 aprile non può essere considerato il modo di “tornare, in un momento di evasione, ad une evento lontano ed estraneo ormai dal nostro mondo e alla nostra realtà”. Anche oggi, che da quella data di anni ne sono passati più di cinquanta, ricordare il 25 aprile ha il significato di “ritrovare, attraverso una critica riflessione sul passato, motivi e criteri di orientamento nel cammino che stiamo percorrendo e per le scelte che sono ancora nelle nostre mani”.

Giuda, pentimento e perdono, cose su cui riflettere

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di Giuseppe Candido

Pubblicato su il Domani della Calabria del 24 aprile 2011

Nella storia della letteratura e delle tradizione la figura di Giuda è stata riproposta con infinite variazioni. L’orientamento è stato quello di cercare una giustificazione trascendente al suo atto. A sostenere questa tesi, nel 2007 in un’intervista rilasciata a Repubblica, fu il Cardinale Gianfranco Ravasi, già prefetto della biblioteca ambrosiana di Milano, “chiamato” a scrivere, con Benedetto XVI, i testi delle meditazioni lette durante le solenne Via Crucis del Venerdì Santo.

“E’molto probabile” – sostiene Ravasi – “che Giuda abbia tradito per una delusione politica. Lui aveva sognato forse di vedere in Gesù un messia di tipo nazionalistico. Poi vede che quest’uomo scardina le strutture più all’interno che all’esterno. Quello che vuole mutare sono le coscienze degli uomini”. Così Giuda tradisce, poi si dispera e, infine, si toglie la vita. Qualunque atto immaginario ci induce quindi a collocare Giuda, il suicida, nel girone dantesco dei traditori. Ma, suggerisce ancora Gianfranco Ravasi, “Questo non possiamo dirlo come non potremmo mai dichiararlo di nessuno. Nell’assoluto momento di solitudine che è l’istante supremo della morte, quando si è tra il tempo e l’infinito, resta ancora una possibilità di scegliere”. Ravasi scorge, nelle ultime ore della tragedia interiore di Giuda e nello scagliare i trenta denari e che anche Mel Gibson ha rappresentato nella sua Passione, “il fiorire del pentimento”. Un pentimento che, ricorda il giornalista, è sempre “presente nella tradizione cristiana”. Anche Caterina Fieschi Adorno, considerata grande mistica e meglio conosciuta come Santa Caterina da Geneva, racconta della visione in cui le appare Cristo e in cui essa esprime la sua curiosità chiedendo a Gesù: “Che ne è stato di Giuda”. Allora Cristo le risponde sorridendo: “Se tu sapessi che cosa io ho fatto di Giuda …”, dimostrando che Giuda era stato “riassorbito nell’amore redentore di Cristo”. È il filone del pensiero teologico secondo cui, “nel momento ultimo non possiamo mai giudicare quale sia la scelta di una persona”.

La linea che va nella direzione della riabilitazione di Giuda fiorisce nel romanzo Un modesto, modestissimo libro, scritto idealmente dal figlio di Giuda di Jerey Archer. Giuda Iscariota è “strumento di Dio finché si possa compiere il percorso terreno di Gesù, fino alla sua crocifissione. Ma Giuda non è neanche una marionetta “usata da Dio”, in modo “crudele”. Jaques Bosset, vescovo e grande predicatore del ‘600, sosteneva che “Dio scrive dritto nelle righe storte degli uomini” potendo trasformare “un atto negativo in un disegno superiore”. D’altronde è proprio Gesù Cristo che, contro ogni regola di allora e di oggi, introduce la scelta del perdono: il suo ultimo gesto sulla croce è infatti il perdono del ladrone che, convertitosi, dice a Gesù: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dopo Giuda, un’altro malfattore da riabilitare a cui Gesù risponde: “Oggi sarai con me nel regno di Dio”. Potremmo ricordarcelo anche noi, in questi giorni di Pasqua che spesso viviamo tra un’agnello e una colomba, che è il perdono, non la rivendicazione e la vendetta, la vera strada per cambiare il mondo.

Trischene, una città immaginata

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Il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione”

di Francesco Santopolo

Tra medioevo e rinascimento, era consuetudine affidare ad autori di cronache il compito di “costruire” storie per dare lustro ad un casato o ad una città.
Questo ha costretto la storiografia successiva ad un difficile lavoro di ricerca per dimostrare l’attendibilità delle “invenzioni” di alcuni fantasiosi cronisti.
Da una di queste è nata la storia di Trischene città che, secondo le cronache, sarebbe stata edificata tra il Simeri, l’Alli e l’Uria e avrebbe subito l’attacco di corsari saraceni tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 1971), dando luogo ad un trasferimento in massa della popolazione scampata al massacro, il cui nucleo più consistente avrebbe fondato la nuova città di Taverna.
Le cronache, infatti, non erano interessate alle vicende di Trischene, quanto alla glorificazione di Taverna che si pretendeva esserne stata l’erede naturale.
Anche in ricostruzioni storiche recenti (U. Ferrari, 1971; M. Barberio, 1975), le vicende di Trischene, sono solo un passaggio per ricostruire la storia di Taverna.
Tuttavia, proprio perché le cronache più antiche hanno contribuito a creare un circuito cumulativo di inesattezze che hanno messo in secondo piano una ricostruzione storica del territorio, pensiamo che la vicenda meriti un approfondimento e una riflessione che, a partire dalle caratteristiche dell’area in cui la fantasia cronachistica avrebbe immaginato Trischene, ci permetta di capire se ci fossero le precondizioni perché sorgesse una colonia autonoma o una “dipendenza”, durante la grande colonizzazione greca o subito dopo. La storia inizia con la comparsa di un manoscritto del ‘200 che ha interessato, a vario titolo, diversi scrittori in epoca successiva (G. B. Nola- Molise, 1649; F. Ughelli, 1743-1762; G. Franconeri, 1891; G. Minasi, 1896; F. Lenormant, 1976, vol. II).
Nella cronaca, il cui titolo completo è “Chronica Trium Tabernarum, et quomodo Catacensis civitas fuerit edificata, quando Goffredus illustrissimus Catacensis Comes pro restauracione et edificacione Trium Tabernarum Episcopatus Greca undique et vetera coadunavit scripta et privilegia” (in Lenormant, l. c., corsivo nel testo), si narra di una città denominata Trischene, e “Si pretende che ne sia stato autore un certo Ruggiero (Ruggero Carbonello, in M. Giovene, Simeri e i suoi casali, 2000, n.d.r.), diacono e canonico di Catanzaro, il quale avrebbe dedicato il lavoro a Guglielmo II, duca di Puglia” (F. Lenormant, l. c.).
Secondo il cronista, Trischene “era ripartita in tre distinte membra di sito, l’un là ove abbiamo l’Uria, l’altro sotto a Simmari e ‘l terzo sotto Catanzaro”(in M. Barberio, 1975).
E qui il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione” (in M. Barberio, l. c.). In realtà, Uria è termine di origine preistorica (G. Rolhfs, 1975), probabilmente legato alla presenza dell’omonimo uccello di cui sopravvivono solo alcune specie come Uria lomvia, Uria grylle o colombo di mare, o dal greco Ũria con cui si designava una specie di anitra o, ancora, dalla radice araba al-hūr che significa “fanciulla dagli occhi neri”.

 

Taverana (Cz)

Ma potrebbe anche collegarsi alla presenza di grosse mandrie di Bos primigenius, Uro per l’appunto, progenitore della razza bovina Podolica, ancora diffusa nel territorio.
Nella versione tramandata dalle cronache, si accrediterebbe l’ipotesi che, tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 971) la città di Trischene, fino ad allora sotto il dominio di Costantinopoli, avesse subito l’assalto di corsari saraceni che avrebbero distrutto i tre siti in cui era ripartita e ucciso gli abitanti che non riuscirono a trovare scampo nella fuga. La maggior parte dei superstiti si spostò in quella che sarebbe diventata Taberna montana o Tabernarum, altri si rifugiarono a Simeri, Catanzaro e Sellia (in M. Barberio, l. c.). Ad avvalorare l’importanza di Trischene nella geografia politica di Costantinopoli, il cronista immagina che, dopo la morte del Duca longobardo, il generale Niceforo Foca inviasse in Calabria il Magister militiae Gorgolano che trovò Tabernarum ricostruita e popolosa (in M. Barberio M. l. c.), la riconobbe unica erede di Trischene e le restituì la sede episcopale (U. Ferrari, l. c.; F. Lenormant, l. c.). La ricostruzione storica successiva non si occupa più del sito di Uria che sarà abbandonato per la posizione facilmente espugnabile.
Nel 1450 Ferrante Galas, nella “Cronaca di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nel 1450”, compie un ulteriore sforzo di fantasia per risalire alle origine di Trischene, immaginando che “Antenore, fuggendo da Troia distrutta, conducesse con sé tre sorelle di Priamo: Astiochena, Medicastena ed Attila. Giunte in vista di un ampio golfo decisero di sbarcare presso la foce di un grande fiume per un breve riposo” (in Giovene, l. c.). Ma poiché non vi era luogo “migliore di sito né di temperie più soavi, né di campi più ameno, né di biade più fruttifero, né di boschi al di sopra più comodo, né di monti vicini ed aggiogati più sicuro, né di acque più abbondanti” (G. Franconeri, 1891) decidono di fermarsi, mentre Antenore proseguirà il suo viaggio, secondo la Chronica per fondare Mantova ma in realtà fonderà Padova (J. Berard, 1963; R. Graves, 1983).
Il luogo in cui fecero scalo era tra il Crocchio e il Simeri. Nel sito di Uria, Astiochena fondò una città e la chiamò Palepoli, in onore della dea Pale, nume tutelare della pastorizia, dea nella mitologia romana, dio in quella etrusca.
Medicastena, in onore di Hera, fondò Erapoli, alla foce del fiume Crocchio o su quella del Crotalo (Alli), luogo in cui, secondo quanto riferisce Stefano di Bisanzio, Ecateo di Mileto avrebbe immaginato la mitica città di Crotalla. Attila fondò una città alla foce del Simeri e, in onore di Atena, la chiamo Atenapoli, per saldare un debito verso la dea che invano aveva cercato di proteggere Troia.
Per la sua posizione. in prossimità della foce del Simeri, Atenapoli divenne il centro dell’attività commerciale. Nei mesi di aprile e maggio di ogni anno si svolgeva una fiera che richiamava mercanti anche dall’Africa e dal vicino Oriente e costituì la premessa per il formarsi di una forte comunità ebraica.
Presumibilmente si trattava della Floralia o Sacrum Florale che si teneva dal 28 aprile al 3 maggio in onore dell’antica divinità italica Flora, cui si attribuiva la fecondità delle donne e la protezione delle piante da frutto al momento della fioritura. Marziale, Varrone e Seneca parlano di Flora, Ovidio la identifica con una ninfa di origine greca (in L. Biondetti,1997) e Catone scrisse il De Re Flora, opera andata perduta ma ricordata da Gellio.
“Nel 238 a. C., in occasione della fondazione del tempio di Flora sul Quirinale” (A. Ferrari, 2008) la Floralia fu istituita anche a Roma (cfr. anche Plinio il Vecchio, 1972, vol. I).
Sia le date che i personaggi citati nelle “Cronache” vanno riesaminati. La pretesa del cronista che, per liberare Trischene, fosse venuto uno dei tre imperatori bizantini (Niceforo Logoteta, Niceforo Foca o Niceforo Botoniate), è, per l’appunto, solo una pretesa.
Più probabile che questo incarico fosse affidato al generale Niceforo Foca, del quale è certa la venuta in Calabria nell’885 (Ferrari U., l. c.).
Niceforo Foca trovò i nuclei scampati ai Saraceni dispersi nell’interno, lontano dalle zone costiere. La presenza del generale contribuì al rafforzarsi di questi nuclei in villaggi e città.
Fu così che nacquero o si rafforzarono Catanzaro, Settingiano, Simeri, Belcastro, Taverna e altre città (U. Ferrari, l. c.), almeno fino al ritorno degli Arabi che assediarono e conquistarono Squillace, costituendo un emirato indipendente durato fino al 922 (U. Ferrari, l. c.) e da qui mossero per espugnare Tiriolo, Simeri, Taverna, Belcastro e Catanzaro.
Secondo la cronaca, alcuni fuggiaschi, guidati da Giulio Catimeri, raggiunsero Catanzaro, si sistemarono sul monte Zaracontes, il cui nome deriverebbe dal torrente Zarepotamo che corrisponde all’attuale Fiumarella (G. Rolfs, 1974) e il nuovo sito, assegnato loro dal generale Niceforo Foca, si chiamò “Rocca di Niceforo” (l’attuale Bellavista). Trischene prese il nome di Taberna e poi Taverna, chi dice per attirare le popolazioni latine, chi sostiene che non esistendo più le tre chiese non c’era motivo di mantenere la vecchia denominazione (U. Ferrari, l. c.).
Taberna montana o Tabernarum o, più semplicemente, Taverna, accolse il maggior numero di fuggiaschi ed ebbe uno sviluppo iniziale maggiore, rispetto a Catanzaro.
Giovanni Filanzio, nella numerazione dell’Apogrifario dell’anno 1000, riporta 1.232 case e 5.288 abitanti, tra cui 53 sacerdoti, 6 monaci e 28 monache basiliane (M. Barberio, l. c.).
Ancora nel 1601, la distanza tra le due città era minima: Taverna contava 2.064 fuochi, Catanzaro 2.296 (M. Barberio, l. c.).
Circa l’attendibilità storica della Chronica, “Nessun dubbio che colui che la scrisse creò di sana pianta i fatti che racconta, frammischiandoli con mostruosi anacronismi e con documenti impudentemente falsificati”(F. Lenormant, l. c.) e, probabilmente, la ricostruzione di una città denominata Trischene o Trischine è “solo una miserabile supposizione, inspirata da pretese senza valore di vanità locale” (F. Lenormant, l. c.), poiché “nessun antico autore ricorda una città di Trischene o Trium Tabernarum nel Bruzio; nessun cronista autentico, né latino né greco né arabo, attesta la distruzione dell’uno o dell’altro nome ad opera dei Saraceni” (F. Lenormant, l. c.).
La tendenza a “costruire” falsi, anche clamorosi, tendenti a magnificare un sito o un personaggio e la scarsità di fonti, contribuiscono a creare delle nebulose tra le quali è difficile districarsi.
“Questa cronaca- aggiunge un altro cronista- è un vero guazzabuglio d’impostura, di notizie false e contraddittorie, un disordinato racconto di favole, come disordinato e confuso dovea essere il vivere del popolo delle Tre Taverne” (G. Minasi, 1896).
Poiché l’intento del cronachista era anche quello di dimostrare la presunta antichità delle chiese di Catanzaro, il Minasi aggiunge che il “cronista confondendo Giovanni vescovo di Squillace coll’omonimo di Velletri, a cui S. Gregorio Magno affidava nel 502 il governo della chiesa delle Tre Taverne (antica città del Lazio sulla via Appia, ove oggi incontrasi un paesetto chiamato Cisterna) senza badare ad altro, tosto spaccia, che la supposta diocesi delle Tre Taverne in Calabria fu unita nel 502 da S. Gregorio alla chiesa di Squillace” (G. Minasi, l. c.). Altri storici hanno messo in dubbio questa ricostruzione della Chronica (F. Ughelli, l. c.) e anche il Lenormant colloca le Tre Taverne nel Lazio.
Quanto, poi, alla pretesa dello sbarco di Antenore con le tre sorelle di Priamo sulle rive del Crocchio o del Simeri, ci sembra una altra colossale invenzione.
Bisogna ricordare che “Sebbene troiano, Antenore era amico dei Greci […] prendeva sempre le difese dei Greci nei dibattiti e possiamo immaginare che avesse interessi economici, parentele e legami matrimoniali che lo legavano ai Greci” (Strauss, l. c.). Così ce lo presenta Omero: “Primo il saggio Antenòr sì prese a dire: Dardanidi, Troiani, e voi venuti in sussidio di Troia, i sensi udite che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi con tutto il suo tesor l’argiva Elèna. Vïolammo noi soli il giuramento, e quindi inique le nostr’armi sono. Se non si rende, non avrem che danno. Così detto, s’assise. (Iliadie, VII)

Per Omero, la figura di Antenore è quella di un eminente troiano che più volte si schiera con le ragioni dei greci, riconoscendone la fondatezza.
Infatti, per diritto consuetudinario, il rapimento di una regina equivaleva ad una dichiarazione di guerra, per cui l’unica via per la pace sarebbe stata quella di riparare al torto di Paride restituendo Elena a Menelao.
Inoltre, in quanto padre di 15 figli maschi, Antenore temeva per la loro vita (durante la guerra ne periranno 10 per mano di Agamennone, Achille, Neottolemo, Aiace Telamonio. Filottete e Megeo).
Ma Antenore era anche uomo del suo tempo e quando va a trattare la pace con Agamennone, cerca di trarre vantaggio da una guerra che considera perduta. In cambio del suo aiuto dall’interno, chiede il regno e la metà del tesoro di Priamo (Ditti Cretese, IV 22 e V 8, in Graves, l. c.), aggiungendo che si poteva contare anche sull’aiuto di Enea (Graves, l. c.).
Ma se, secondo Ellanico, Ditti Cretese e Triflodoro, Antenore tradì i Troiani e, qualche secolo dopo, Dante Alighieri chiamerà Antenora la zona dell’Inferno in cui colloca i traditori della patria: («Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,/percotendo» (Inferno, XXXII), Enea non seguì la stessa sorte e sarà immortalato come un eroe nell’omonimo poema di Virgilio. Secondo Tito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà grazie al ruolo moderato svolto durante la guerra, e arrivato nel Veneto, fondò Padova che fu chiamata Antenorea (cfr. anche Berard, l. c.).
A parte il diverso itinerario di fuga da Troia distrutta e documentato da storici attendibili, ci sembra assolutamente fantasiaso che Antenore possa essersi preoccupato di salvare le tre sorelle di Priamo, visto il ruolo che gli si attribuisce nelle vicende di Troia.
Resta aperto il problema della possibilità che nell’area in questione possa esserci stata una colonia greca o italiota, o una dipendenza da altra colonia (Crotone, per esempio).
Partiamo dalle cause della colonizzazione greca la cui interpretazione “è rimasta a lungo impantanata nella falsa alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento” (D. Musti, 1989), tanto da aver dato origine a due scuole di pensiero.
La prima privilegiava la pressione demografica nella terra natale che spingeva verso la conquista di nuovi spazi e la fondazione di colonie. La seconda privilegiava l’aspetto mercantile dell’economia greca, incentrata sulla produzione di beni e sugli scambi. Sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, fu quasi del tutto eliminato il termine “pre- colonizzazione” con cui si designavano i contatti precedenti alla fondazione delle colonie (B. D.Agostino, 1985). In sostanza, i contatti tra il mondo greco e gli indigeni in epoca anteriore, sono da ascriversi ad iniziative individuali di mercanti, sul modello dell’emporia comune anche ai Fenici (B. D.Agostino, l- c.), mentre la fondazione di colonie corrisponde ad un disegno politico, di cui sono testimonianza concreta il loro assetto giuridico ed economico, come risulta evidente per la fondazione della colonia di Turi, dopo la distruzione di Sibari, riportata con dovizie di particolari da Diodoro Siculo nella Storia Universale.
L’adozione di uno schema geometrico che tende a segregare i campi coltivati da quelli incolti o destinati a pascolo (E. Sereni, 1987), è affidata a magistrati che operano in base ad un piano, come è stato possibile rilevare dalla Tavole di Eraclea, attraverso le quali Kaibel ha ricostruito la pianta delle terre di proprietà del tempio di Atena Polliade (E. Sereni, l. c.).
In realtà, sull’interpretazione delle cause della migrazione dei greci per fondare colonie fuori dalla madre patria, ha pesato molto un modello di emigrazione noto in epoca moderna e contemporanea, con il quale il modello greco non ha niente in comune, come hanno osservato Finley (1976) e Lepore (1978). Secondo Platone i coloni scaturiscono da una popolazione “divenuta eccedente in rapporto alla possibilità di alimentazione tratta dalla terra” (Leggi, 1967) oppure quando “accade anche che un intero partito di un solo stato sia costretto altrove in esilio per la dura necessità della lotta civile” (Platone, l. c.). Aristotele (Politica, 1973) aggiunge “la limitazione del numero dei cittadini, sul controllo delle nascite, sul mantenimento dei lotti familiari tramite l’adozione e sulla proibizione di alienare la proprietà terriera, in particolare i lotti attribuiti originariamente alla famiglia” (L. Cordano, 1985). In sostanza, “non si tratta di un numero eccessivo di abitanti, ma di un numero troppo grande di aventi diritto, rispetto alla disponibilità fondiaria” (L. Cordano, l. c.).
Quanto all’idoneità del territorio perché potesse sorgere una colonia greca o italiota, vale ricordare che Simeri e l’area attorno a Simeri, percorsa da due fiumi navigabili (Plinio il Vecchio, l. c.), era stata un luogo di traffici, se già nel 14°-13° sec. a.C. vi si lavorava il ferro e alla stessa epoca risalgono ritrovamenti di reperti ellenistici.
Questi contatti erano già iniziati nel XIII secolo a. C., quando le coste calabresi cominciavano a diventare meta di viaggiatori, Fenici e Greci.
Dei Fenici, prima delle guerre puniche, si hanno notizie certe in alcuni toponimi.
Il più noto è sicuramente “Botri”, che significa “fosso” o “burrone”, di cui Plinio riporta un solo toponimo ai piedi del Libano (Plinio il Vecchio, l. c.).
Botro è un toponimo in prossimità del Crocchio, Botricello il centro abitato che vi sorge attorno. Molto più ricca la toponomastica greca per la quale rinviamo alle opere di Gerald Rohlfs.
Il nome dei due torrenti, Scilotraco di Sellia, vicino al Simeri e Scilotraco di Rocca, vicino al Crocchio, ricordano l’antica abitudine di trasportare il legname proveniente dalla Sila.
Scilotraco significa, appunto, “portatore di legna” (G. Rohlfs, l. c.) e il termine deve avere una sua collocazione antica se dobbiamo credere a Strabone quando scrive che il legname “non presenta difficoltà di trasporto, né si trova lontano dai luoghi dove abbisogna, ma è facilmente trasportabile e lavorabile, grazie ai numerosi fiumi” (sta in C. Ampolo et al., 1989).
I motivi per cui si può ragionevolmente ritenere che l’area potesse avere interesse per i coloni greci o italioti sono tanti.
L’area risultava largamente trafficata da almeno 2 secoli prima della grande colonizzazione greca e i territori indicati nelle cronache, per essere territori costieri con un vasto entroterra pianeggiante e collocati lungo il corso di due fiumi navigabili (Semirus e Crotalus), non potevano sfuggire all’interesse dei coloni greci o dei coloni italioti;
Si chiamasse Trischene o in un altro modo, c’era spazio per una colonia ubicata in posizione felice tra Crotone e Palepoli Scolacium, a sua volta ubicata in prossimità di un altro fiume navigabile, il Carcinus (Corace).
Infine, è impensabile un vuoto antropico tra Skylletion-Scolacum e Crotone considerando che oltre che dal Semerus e dal Crotalo, il territorio è attraversato dal Thagines (Tacina), altro fiume navigabile.
Ma le conferme più importanti ci vengono dai ritrovamenti archologici.

Nel 1880, nel corso di scavi per la costruzione di una strada, in località “Donnumarcu” venne allo scoperto una tomba contenente “fibule di filo di ferro cilindrico girato a spirale, dei braccialetti, un anellino, delle catenelle, una cuspide di lancia e dei resti di ossa combuste” (M. Giovene, l. c.), mentre a Timpa delle Gallinelle fu rinvenuta una scure di bronzo e, probabilmente, altri oggetti andati perduti.
Sempre in “località Donnumarco, tra il 1881 e il 1884, furono scoperte altre tre tombe che, oltre al solito corredo, contenevano alcuni scarabei” (M. Giovene, l. c.).
Due degli scarabei ritrovati sono probabilmente di origine egizia e potrebbero essere stati oggetti di scambio nel corso di una Floralia o nelle attività di emporia.
Per concludere, se la pista di una città immaginata- a meno di ritrovamenti storico- letterari meritevoli di approfondimento- non può più essere ragionevolmente riproposta, resta la convinzione che i territori attorno al Simeri siano stati abitati da coloni greci a partire dalla grande colonizzazione o anche prima.
Per provarlo in via definitiva, al di là dei deboli indizi di cui disponiamo, sarebbe necessario ripartire con un lavoro di ricerca e di scavi che invece di dare corpo alle invenzioni, si muova sul terreno scientifico della ricerca storica e archeologica.

Bibliografia Alighieri, D. (2011), Inferno, Milano, Mondadori. Ristampa.
Aristotele (1973), Politica.Trattato sull’economia, Bari, Laterza.
Barberio, M. (1985), Da Uria a Mattia Preti, in Calabria Letteraria, n.10/11/12.
Berard, J, (1961), La Magna Grecia. Torino, Einaudi.
Biondetti, L. (1997), Dizionario di mitologia classica, Milano, Baldini & Castoldi.
Cordano, L. (1985), La fondazione delle colonie greche, in Magna Grecia, vol. I, Milano, Electa.
D’Agostino, B.(1985), I paesi greci di origine dei coloni e le loro relazioni con il Mediterraneo occidentale, sta in Magna Grecia, vol. I, Milano, Electa.
Diodoro Siculo (1991), Storia universale, Torriana, Orsa Maggiore.
Ferrari, A. (2008). Dizionario di mitologia, Milano, De Agostini.
Ferrari, U. (1971), Taverna in epoca bizantina, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania.
Finley, M. I, (1974), Gli antichi greci, Torino, Einaudi.
Fiore, G. (1743), La Calabria illustrata.
Franconeri,G. (1891), Memorie storiche di Taverna, Catanzaro.
Galas, F. (1450), Cronica di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nell’anno 1450, (manoscritto).
Giovene, M. (2000), Simeri e i suoi casali, Catanzaro, Vincenzo Ursini Editore.
Graves, R. (1983), I miti greci, Milano, Longanesi.
Lenormant, F. (1976), La Magna Grecia, 2° Vol., Chiaravalle C., Frama sud.
Lepore, E. (1978), La fioritura dell’aristocrazia e la nascita della polis, in Storia e civiltà dei Greci, vol.I, Milano, Bompiani.
Livio, Tito (1965), Storia di Roma, Bologna, Zanichelli.
Marafioti, F. (1601), Croniche e antichità di Calabria.
Minasi, G. (1896) Le Chiese di Calabria, Napoli, Lanciano e Pinto. Edizione anastatica, 1987, Oppido Mamertina, Barbaro.
Musti, D. (1989), Storia greca, Bari, Laterza.
Nola- Molise, G. B. (1649), Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone e della Magna Grecia, Napoli.
Omero (2010), Iliade, Milano, Mondadori. Ristampa.
Platone (1967), Opere, Bari, Laterza.
Plinio il Vecchio (1972), Storia Naturale, Libro III, pag. 96, Torino, Einaudi.
Rolhfs, G. (1974), Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina, Congedo Editore.
Strauss, B. (2009), La guerra di Troia, Bari, Laterza.
Ughelli, F. (1743-1762), Italia sacra sive de Episcopis Italiae, Venezia.

 

L’ideologia dell’indipendenza nazionale e la fine di Schengen

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di Giuseppe Candido

Sottoscritto il 14 giugno 1985 fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi l’accordo di Schengen intendeva eliminare progressivamente i controlli alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari, degli altri Stati membri della Comunità o di paesi terzi.
Successivamente, la convenzione di Schengen firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque Stati membri e successivamente entrata in vigore nel 1995, completò quell’accordo definendo “le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all’attuazione della libera circolazione”.
Obiettivi dichiarati della convenzione adottata poi da tutti i paesi membri erano l’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne, il “rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, la collaborazione delle forze di polizia e la possibilità, per esse, di intervenire in alcuni casi anche oltre i propri confini. Inoltre la convenzione prevedeva il coordinamento degli stati dell’Unione nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza internazionale come ad esempio mafia, traffico d’armi, droga e immigrazione clandestina.
Era il sogno degli Stati Uniti d’Europa che avrebbe dovuto concretizzarsi con un esercito degli Stati Uniti d’Europa, un Ministro degli Esteri europeo in un’Europa federale e federalista.
“L’ideologia dell’indipendenza nazionale” si legge nel Manifesto di Ventotene, “è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori. Essa portava però in sé” i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”.
Le cose però cambiano, i contesti divergono e l’Europa non è quella che i suoi più alti Padri costituenti avrebbero voluto. Gli Stati nazionali continuano a soffocare la Patria europea. Dopo aver fatto sparire la Bandiera blu con le stelle e dopo aver abolito l’Inno alla gioia come inno europeo oggi assistiamo alla morte della libertà di circolazione. A che punto sia oggi quel trattato, dopo la crisi Italia-Francia per la gestione degli immigrati, è sotto gli occhi di tutti. Non parliamo poi i quel sogno europeo. L’Onda dei migranti apre una crisi nell’Unione europea, è il titolo con cui apre in prima pagina nei giorni scorsi El Pais.
La valanga di migranti provocata dalle rivolte arabe ha aperto una nuova spaccatura nell’Unione europea. L’Italia ha accusato la Francia, sottolinea il noto quotidiano spagnolo, di violare i principi base dell’Unione dopo che le autorità francesi hanno bloccato il passaggio dei treni provenienti da Genova per impedire l’ingresso di tunisini. E che “Parigi blocca i migranti tunisini alla frontiera italiana” se ne accorge lo stesso Le Monde che però si spinge ben oltre nell’analisi.
“Ad una settimana dal vertice Franco-Italiano del 26 Aprile, i due Paesi hanno aggiunto un nuovo soggetto di discordia a quelli che già li oppongono, bloccando la circolazione dei treni tra Ventimiglia e la Costa Azzurra. Domenica, si legge ancora sul quotidiano d’oltre Alpe, Parigi ha provocato la reazione indignata del Governo italiano che ha denunciato questa misura come illegittima.” In causa, ovviamente, è la decisione presa dall’Italia di accordare un permesso di soggiorno provvisorio per circa 20.000 tunisini arrivati a Lampedusa dopo la caduta del regime di Ben Ali. Per il Governo Italiano, spiega Le Monde, questi permessi temporanei, in base agli accordi Schengen, devono permettere agli immigrati, che per la maggior parte vogliono andare in Francia, la loro libera circolazione. Per Parigi, invece, gli immigrati devono giustificare una residenza in Francia, un titolo di trasporto (cioè un biglietto) e delle risorse economiche per l’auto sostentamento.
Domenica scorsa, un centinaio di tunisini muniti di un permesso di soggiorno provvisorio, accompagnati da 250-300 militanti francesi ed italiani, avevano preso posto su quello che Le Monde definisce il “treno della libertà”. Da Genova verso la Francia, con l’obiettivo di “sfidare i blocchi dei governi e garantire il libero accesso al territorio europeo e ricordare che “nessun essere umano è illegale”. Parigi ha però deciso di bloccare il convoglio alla frontiera di Ventimiglia, ufficialmente, “in ragione dei rischi per l’ordine pubblico”. Unica causa per cui l’accordo di Schengen poteva essere sospeso temporaneamente.
Forse, in un momento come quello che oggi l’Italia sta vivendo, parlare di regressione del processo d’integrazione europea e di morte dell’Unione intesa come unione di popoli e non solo unione commerciale, può sembrare inutile, quasi velleitario. Eppure il tramonto di quel sogno, il declino di un’idea d’Europa unita non solo da un’unica moneta e dall’abolizione dei dazi sulle merci, ma anche dalla condivisione di territori, di culture e di tradizioni, proprio nel momento in cui i nazionalismi, dal Belgio alla Finlandia passando per i Paesi Bassi, si affermano e si rinforzano, dovrebbe costituire una preoccupazione seria per classi dirigenti del nostro Paese.

Buon compleanno Italia!

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Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommen- surabili. Nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.

Giuseppe Garibaldi


 

Buona lettura

A 150 anni dell’Italia unita, Abolire la miseria della Calabria dopo il numero precedente dedica ancora il suo primo numero del 2011 alla storia del nostro Paese e al ruolo del Mezzogiorno nella costituzione dello stato unitario. Ancora una volta in copia omaggio gratuita con una tiratura di 10.000 copie grazie al contributo della Provincia di Catanzaro che sentitamente ringraziamo.

BUONA LETTURA

Berlino 1940, La convocazione

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IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA

Sabato 29 gennaio ore 18.30, al Caffè Letterario via Menniti Ippolito, 5/7 – Catanzaro incontro con Nadia Crucitti autrice di “Berlino 1940 La convocazione” (Città del Sole Edizioni)

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La storia vera del regista tedesco VEIT HARLAN e del più famoso film antisemita JUD SÜSS

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JUD SÜSS è considerato il capitolo più infame della cinematografia tedesca, il film che più di tutti ha rappresentato e diffuso la propaganda antisemita del regime nazista, definito dal giovane Michelangelo Antonioni “potente, incisivo, efficacissimo, ripreso in maniera impeccabile, fin troppo”.

Il romanzo di Nadia Crucitti racconta la storia del regista VEIT HARLAN, di un uomo e di una nazione che pensavano di poter vivere e creare, senza fare i conti con la Storia

In occasione della giornata della memoria, si terrà sabato 29 gennaio presso il Caffè Letterario di Catanzaro l’incontro con Nadia Crucitti, autrice del romanzo Berlino 1940. La convocazione, pubblicato da Città del Sole Edizioni.

Si tratta della storia vera di Veit Harlan regista cinematografico nella Germania nazista. Harlan non è antisemita, ma è convinto che l’artista possa creare rimanendo estraneo al suo tempo, senza subire condizionamenti politici e pesanti compromessi. Ormai famoso grazie alla sua vicinanza con il regime, di cui subisce un pesante fascino, per volere di Goebbels gira il film divenuto simbolo dell’antisemitismo, Jud Süss, vero e proprio strumento di propaganda della persecuzione contro gli ebrei. La storia del finanziare ebreo Suss Oppenheimer, realmente esistito nella prima metà del ‘700, colpevole di vari reati, viene ulteriormente incattivita dalla sceneggiatura voluta da Goebbels, per scatenare ancora di più l’odio razziale tra le SS e i membri della polizia.

Costretto di fatto a firmare la regia di un film nato per uno scopo politico, Harlan è ossessionato non dalla responsabilità morale, ma dall’eventualità di produrre un’opera di scarso valore artistico. Non solo il film ebbe una larghissima circolazione in tutta Europa, grazie al supporto del regime nazista, ma sedusse anche la critica e un giovane Michelangelo Antonioni che, al Festival di Venezia, lo definì “potente, incisivo, efficacissimo, ripreso in maniera impeccabile, fin troppo”.

“Harlan è vanesio e ambizioso, ma è un uomo come tanti – afferma Nadia Crucitti – La storia non la fanno i mostri, ma coloro che per opportunismo li seguono. Considero Harlan un colpevole, non tanto per il film, dato che allora gli sarebbe riuscito difficile rifiutare. È un colpevole perché dopo ha continuato ad essere asservito al potere di Hitler, pur avendo ormai capito. E anche dopo la guerra non ha mai dimostrato alcune contrizione”.

In questo romanzo si è voluto raccontare la storia di un uomo e di una nazione che preferirono, davanti all’instaurarsi di una dittatura che aveva già in sé i germi del sistema criminale, non vedere e non sentire, mettendo a tacere la propria coscienza ed evitando di scegliere. Ed è al contempo un bellissimo affresco della storia del cinema degli anni ’30 e ’40, in un periodo nel quale la sua potenza artistica e comunicativa si andava imponendo agli intellettuali e alle masse.

Nadia Crucitti (Reggio Calabria, 1955) ha esordito nel 1990 con la raccolta di racconti dal titolo Notti di luna bugiarda. Nel 1996 ha pubblicato con Mondadori il romanzo Casa Valpatri, vincitore del Premio “Cronaca familiare”, organizzato dal settimanale “Famiglia Cristiana”, e scelto da una giuria composta da: Giuseppe Bonaviri, Miriam Mafai, Ferruccio Parazzoli, Giuseppe Pontiggia, Carlo Sgorlon, Susanna Tamaro, Leonardo Zega. Autrice di racconti pubblicati da note riviste culturali (Tuttolibri, Cortocircuito), con questo romanzo inaugura la nuova collana di narrativa della Città del Sole Edizioni, Raggi, di cui è direttrice.

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riceviamo e pubblichiamo la segnalazione per cura di:

Ufficio stampa Citta del Sole edizioni: Oriana Schembari, Via Ravagnese Sup. 60/A – Tel. 0965-644464 – Fax 0965-630176; www.cittadelsoledizioni.it – info@cittadelsoledizioni.it

Non dimenticare le Shoah ancora in corso

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di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 30.01.2011

Nella parola Shoah, verbo biblico che significa “catastrofe, disastro”, è insito che quanto accaduto durante la seconda guerra mondiale per opera dei nazisti non ha alcun significato religioso, contrariamente a ciò che, invece, potrebbe richiamare il termine “olocausto”, di sovente usato, e che richiama un’idea di “sacrificio d’espiazione”. La Shoah piuttosto fu vero genocidio, un’azione criminale di una politica criminogena finalizzata, attraverso un complesso e “preordinato insieme di azioni”, alla cancellazione di un gruppo etnico-nazionale, razziale e religioso.

Il termine venne ufficialmente usato per lo sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti, per la prima volta nel 1938 nel corso d’una riunione del Comitato Centrale del Partito Socialista, in riferimento al pogrom della cosiddetta “Notte dei Cristalli”. Oltre sei milioni di ebrei, giovani, vecchi, neonati e adulti, furono trucidati dalla violenza nazista. S’iniziò con la privazione dei diritti civili dei cittadini ebrei; proseguì con la loro espulsione dai territori della Germania sino alla creazione di veri e propri “ghetti” circondati da filo spinato, muri e guardie armate. Poi i massacri delle Einsatzgruppen (squadre incaricate di eliminare ogni oppositore del nazismo nei territori conquistati dell’Ucraina e della Russia). Infine vi fu la deportazione nei campi di sterminio in Polonia dove, dopo un’immediata selezione, gli ebrei venivano o uccisi subito con il gas o inviati nei campi di lavoro e sfruttati fino all’esaurimento delle forze, per essere poi comunque eliminati. Ausmerzen, significa sopprimere. Anche l’eugenetica, tra gli anno ’39 e ’45 durante le guerra mondiale, fu applicata attivamente dai nazisti. A ricordarlo, per il giorno della “memoria” , è Marco Paolini con lo speciale del 26 gennaio. La memoria è giustizia è il titolo dell’editoriale di Ferruccio de Bortoli che, anticipando tutti il 24 gennaio, si dedica alle “virtù del ricordo”. Per ritrovare la nostra “incerta identità italiana” coglie l’occasione del ricordo “per parlare un po’ di noi stessi” e “discutere di quello che stiamo diventando: un Paese smarrito che fatica a ritrovare radici comuni e si appresta a celebrare distrattamente i 150 anni di un’Unità che molti mostrano di disprezzare”. Il direttore del Corriere della Sera nota, anche per il 27 gennaio giorno della Memoria, il rischio “pericoloso” di essere retorici di cadere nella “ritualità dei ricordi”. “Sapere perché non accada più, cittadini consapevoli dei valori universali”, conoscere per deliberare aggiungeremmo pure. Ed anche Ferdinando Sessi e Carlo Saletti con il loro Visitare Auschwitz (Marsilio ed.), ricorda il giornalista, ci mettono in guardia nei confronti di quello che definisce “frettoloso turismo della memoria”. Allora, per evitare ipertrofia della memoria e l’accumulo di lontani ricordi di genocidi per onorare quelle vittime ed insegnare ai giovani ciò che oggi non dovremmo mai ripetere forse è utile accorgersi delle continue violazioni della costituzione e delle leggi internazionali che l’Italia continua a fare mantenendo attivi quei nuclei di “Shoah” che sono ormai diventate le nostre patrie galere e quella che la leader radicale Emma Bonino chiama “La legittimazione normativa delle discriminazioni e del razzismo in Italia”. “Il razzismo” – tuona la Bonino che di diritti e di Stato di Diritto se ne intende – in Italia non è più un’“emergenza”, nel senso che è quotidiano e diffuso da tempo in tutte le aree del paese. Non contribuisce certo” – aggiunge – “a frenare questa deriva, quel processo di legittimazione culturale, politica e sociale del razzismo di cui gli attori pubblici, in particolare le istituzioni, sono i principali protagonisti”. “Il nostro Paese” – si legge in un dossier della memoria sulle accuse all’Italia – “non è nuovo a censure in materia di rispetto dei diritti umani e del principio di non discriminazione, in particolare con riferimento a Rom, Sinti e Camminanti e ai diritti dei migranti”. Un humus utile alla proliferazione di atti e violenze razziste.

Nel novembre del 2007 con una risoluzione adottata il Parlamento europeo ricorda, di fronte alle minacce italiane di espulsione di cittadini rumeni, che “la libertà di circolazione è inviolabile e che le legislazioni nazionali devono rispettare la legislazione comunitaria”.
Il 20 maggio 2008 il Parlamento europeo richiede alla Commissione chiarimenti sulla situazione dei Rom in Italia. Il Commissario Vladirmir Spidla è prudente, ma richiama “gli Stati membri” al dovere di respingere qualsiasi stigmatizzazione dei Rom, affermando che “non dovremmo chiudere gli occhi” di fronte alla discriminazione e all’esclusione subite dai Rom e che la lotta contro i crimini deve essere condotta rispettando i principi dello Stato di diritto. 
Il 10 luglio 2008 il Parlamento europeo, che ha invitato una sua delegazione in Italia, adotta una nuova risoluzione in cui “esorta le autorità italiane ad astenersi dal procedere alla raccolta dell’impronte digitali dei rom” e afferma che “questi atti costituiscono una violazione del divieto di discriminazione diretta e indiretta, previsto in particolare della direttiva 2000/43/CE. 
Tra il 20 e il 26 luglio 2008 è l’Odihr (Ufficio per le Istituzione democratiche e i Diritti umani) dell’Osce, che aveva espresso già la sua preoccupazione a condurre una visita in Italia, ha sanzionato che i provvedimenti sono “sproporzionati, ingiustificati, sotto divieti profili illegittimi e stimolano l’insorgere di xenofobia e razzismo”. Per finire poi alla legge per la regolarizzazione non già di chi lavora onestamente ma soltanto di chi esercita il mestiere di colf o badante. Se sei muratore o raccogli le arance di Rosarno t’arrangi. Se vai in galera magari solo perché migrante e trasformato in clandestino è pure facile che ci si ammazzi per cercare un’uscita da una condizione disumana. È proprio in quell’“indifferenza etica” dove “crescono i pregiudizi”, e (…) “nella perdita dei valori della cittadinanza, scritti mirabilmente nella nostra Costituzione”, che c’è il seme per nuove violenze. Vanno bene i film, i libri e tutto ciò che, facendo conoscere, ci aiuti a ricordare ma, per evitare la retorica del ricordo e la noia della saggistica, ed avere memoria lo stesso di ciò che ha significa Shoah, per vedere in faccia le catastrofi che non dovrebbero mai più ripetersi, talvolta basta dare un’occhiata al marocchino della porta accanto oppure osservare il ghetto penitenziario più vicino a noi.

Giornata della Memoria a Briatico

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di Franco Vallone

Per il Il 4 febbraio

Una giornata dedicata al ricordo della Shoah, un’occasione per celebrare il Giorno della Memoria (27 gennaio), anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, che si commemora ogni anno, un appuntamento fisso per tutti coloro che non intendono dimenticare la grande tragedia del secolo scorso. Quest’anno anche l’‘Amministrazione Comunale di Briatico ha organizzato, per venerdì 4 febbraio e presso l’aula magna del Centro di Formazione Professionale Anap Calabria, una interessante iniziativa celebrativa che non vuole avere soltanto una valenza di tipo commemorativo ma che, nei suoi intendimenti, vuole rileggere profondamente un periodo così tragico della storia e del passato. Il titolo scelto per il convegno di Briatico è : “Giornata della memoria, per non dimenticare”. L’evento storico culturale prevede la presenza di numerose autorità civili e religiose, tra gli altri sono attesi il vescovo della diocesi, mons. Luigi Renzo; il prefetto di Vibo Valentia, Luisa Latella; il questore di Vibo Valentia; il presidente dell’Amministrazione Provinciale Francesco De Nisi; il sindaco di Briatico, Francesco Prestia; di Tropea Adolfo Repice; di Parghelia, Maria Brosio; di Zambrone, Pasquale Landro; di Cessaniti, Nicola Altieri; il presidente del Consiglio del Nucleo Industriale di Vibo Valentia, Pippo Bonanno; il consigliere provinciale, Gianfranco La Torre e il senatore Francesco Bevilacqua. L’appuntamento è per le ore 9,30 con il saluto delle autorità presenti, alle ore 10.15 è invece prevista l’apertura ufficiale dei lavori del convegno da parte del presidente del Consiglio Comunale di Briatico, Carlo Staropoli e, a seguire, gli interventi dell’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani; di Giancarlo Mancini, docente di storia della medicina presso l’Università di Tor Vergata; di Galileo Violini, docente presso l’Università della Calabria e delegato dal rettore per i rapporti internazionali; di Alessandro Gaudio, docente di letteratura italiana presso l’Unical; del consigliere regionale Alfonsino Grillo e dell’assessore Regionale alla Cultura, Mario Caligiuri. A moderare i lavori il docente di storia e filosofia, Tommaso Fiamingo. Durante la giornata, sempre nei locali dell’Anap Calabria, verrà allestita una mostra di arti visive degli allievi del Liceo Artistico di Vibo Valentia, coordinati dal docente Giancarlo Staropoli.

Da Aspasia a domani: lo spazio politico delle donne

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di Anna Rotundo *

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 3 dicembre 2010

Tucidide nelle sue Storie riferisce il discorso che Pericle rivolse agli ateniesi nel 461, un anno dopo l’inizio della guerra con Sparta, per commemorare i caduti in guerra, discorso in cui la polis viene presentata come il paradigma della democrazia.

Noi abbiamo una forma di governo… chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta”.

La democrazia, dunque, è amministrata per il “bene” di una “cerchia più vasta”.

Chi, però, amministra questa democrazia e dunque sceglie il “bene” per i molti? Risposta: i cittadini maschi. Atene come qualcuno ha scritto è infatti “un club per soli uomini”. Una Atene profondamente misogina, in cui le donne non potevano fare politica, né votare.

E Aspasia, donna colta, filosofa e maestra di Socrate, vissuta in questa Grecia del V secolo a. C., si scontrò con questo forte condizionamento dal pensiero maschile, secondo cui la corporeità femminile doveva giocarsi in un rapporto ineluttabilmente alternativo e conflittuale rispetto alla dimensione intellettiva. L’opposizione di Aspasia alle logiche patriarcali le costò in termini di reputazione, sia ai suoi tempi, sia oggi, visto che i libri di storia la ignorano. Il che mostra il grande lavoro critico ancora da svolgere negli studi classici su questi temi. Perché in quella Atene comunemente riconosciuta culla della democrazia, l’esilio del sesso femminile dalla sfera pubblica, l’esclusione delle donne dalla vita politica, la privazione dei loro diritti patrimoniali e legali, l’affievolimento della loro voce, di fatto smentiva qualsiasi ipotesi di democrazia partecipata. E la non rinuncia da parte di Aspasia all’esercizio del potere intellettuale e quindi politico ricorda, come asserirà molto più tardi Luce Irigaray, che la democrazia comicia fra due, cioè fra uomo e donna. Ribadisce cioè come nel rapporto uomo-donna vada ricercata la modalità d’accesso ad un nuovo concetto di democrazia, rispettoso innanzitutto delle differenze, a partire da quelle fondamentali di genere. Aspasia fu punto di riferimento ineludibile fra i protagonisti della scena culturale greca del V sec. a. C. proprio in virtù del fatto che non accettò di vivere reclusa come le donne del suo tempo, ma, cosa assolutamente inammissibile alle donne greche, frequentava e promuoveva riunioni dove si discuteva di politica e retorica, e fu, oltre che intellettuale acuta e vivace, sapiente e capace mentore delle strategie politiche e culturali dispiegate da Pericle, di cui seppe con intelligente estro indirizzare le scelte. E se Platone nel Menesseno fa recitare a Socrate un discorso retorico che dice composto da Aspasia, e Menesseno si mostra stupefatto che un discorso così elaborato sia stato prodotto da una donna, Socrate ribatte che potrebbe riferirgli molti altri discorsi politici di Aspasia e non esita a ricordarla come sua maestra. Il nome di Aspasia tocca dunque alcuni punti nevralgici della riflessione sulle donne e l’antichità. E se la figura aspasiana ci appare già travagliata proprio dal pensiero della differenza, e dopo di lei qualche altra figura femminile si affaccerà a strattoni su una scena politica esclusivamente appannaggio degli uomini, solo tra ottocento e novecento prenderà forza un vero movimento politico, preceduto dalle rivendicazioni delle cittadine francesi durante la Rivoluzione del 1789, per il superamento degli ostacoli e delle limitazioni che hanno impedito alle donne di “abitare il mondo” contribuendo al bene comune. Tappa miliare è, nella prima metà del novecento, la conquista del diritto di voto delle donne europee, e, altrettanto importante, è l’affermazione del loro diritto al lavoro e l’accesso alle professioni. Il femminile, storicamente condannato al silenzio nella sfera pubblica, nella vita sociale e politica, è portatore di una differenza di sesso, storie personali ed esperienze, che arricchisce la comprensione del mondo, e che non si può semplicemente omologare al maschile. Hannah Arendt, grande pensatrice del ‘900, elabora in questo senso la categoria tutta femminile della nascita, che è simile all’inizio dell’agire perché ogni azione, come ogni nascita, inizia qualcosa di nuovo: originalissimo pensiero, in quel panorama filosofico maschile del Novecento, segnato dalla meditazione sulla morte. L’interrogativo che assorbe pienamente la riflessione della filosofa è: “Che cos’è diventata la vita umana?”. La risposta è da ricercare nell’unicità dell’esistenza che le persone devono realizzare per passare da mero “zoon”, fatto biologico, a “bios”, vita spesa nell’azione e nella narrazione. “Bios” è la capacità politica di prendere l’iniziativa per fare di un “qualcosa” un “chi”. Un dovere eticamente ineludibile per le nuove generazioni, visto che l’’agire politico è diventato per noi comando e obbedienza, rappresentanza e sovranità; ad eccezione dei momenti iniziali delle rivoluzioni moderne e delle esperienze consiliari, non vi è nel mondo moderno alcuno spazio per l’agire in relazione con altri, sulla scena della pluralità. Una pluralità che comicia a due, con l’affermazione piena, ancora purtroppo incompiuta, dei diritti delle donne, anche all’interno di istituzioni definite rappresentative, ma in realtà mai veramente rappresentative delle donne.

Infatti, nonostante i progressi realizzati negli ultimi anni per quanto riguarda la partecipazione della donna alla vita sociale, le donne restano ancora oggi ampiamente escluse dalla politica e continuarono a subire discriminazioni per quanto riguarda le elezioni, come dimostrano i dati a disposizione, dai quali si evince, tra l’altro, come le donne parlamentari siano più inclini degli uomini ad attuare cambiamenti a favore dei bambini, delle donne e delle famiglie. Studi sociologici dimostrano che nei paesi in cui le donne gestiscono il potere politico (in testa, i paesi nord-europei e l’Italia al fanalino di coda!), c’è più crescita economica, più sviluppo sociale, più occupazione femminile, e le donne hanno più figli. Il coinvolgimento delle donne in politica può contribuire allo sviluppo di legislazioni più attente alla condizione femminile, dei bambini e delle famiglie, a partire da temi quali la violenza, lo sfruttamento, la privazione della libertà, le molestie, ma anche il ruolo sociale e pubblico delle donne.

* Anna Rotundo è responsabile dell’ Osservatorio per le Pari Opportunità del Movimento Cristiano Lavoratori di Catanzaro.